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Scusi, chi ha fatto palo?

Claudio Cerasa
Non c’è un vincitore, non c’è uno sconfitto, non c’è un allarme affluenza, non c’è boom a 5 stelle, non si è imposto alcun modello Le Pen, non esiste un mondo possibile a sinistra del Pd. Ma uno schema c’è. Lezioni dal voto.

I risultati delle elezioni comunali si possono commentare utilizzando i punti di osservazione più creativi a seconda di ciò che si vuole dimostrare, ma comunque lo si voglia utilizzare il voto di domenica scorsa ci dice che non c’è un vero vincitore, che non c’è un vero sconfitto, che non c’è un allarme affluenza (62 per cento, 67 cinque anni fa ai tempi del dàgli al Cav.), che non c’è un boom del 5 stelle, che non c’è un voto sistematico contro Renzi, che non si è imposto alcun modello Le Pen, che non esiste un mondo possibile alla sinistra del Pd e che salvo alcuni casi particolari il centrosinistra e il centrodestra, laddove non hanno vinto al primo turno, sono arrivati quasi sempre al ballottaggio (sedici volte i primi, dodici volte i secondi), al contrario del Movimento 5 stelle che su venticinque comuni capoluogo è arrivato fino in fondo appena tre volte (è al ballottaggio a Torino, a Roma, a Carbonia). A parte le quantità (Raggi più del previsto a Roma, Fassino meno del previsto a Torino, Merola meno del previsto a Bologna, Parisi più del previsto a Milano) non ci sono state sorprese di scenario, si dice così, e cercare a tutti i costi un filo comune che leghi i risultati dei vari partiti è impossibile e forse non ha neanche senso.

 

Il Pd ha dei problemi, lo ha riconosciuto anche Renzi, ma a parte Napoli se la gioca in tutte le grandi città (a Milano, Torino e Bologna parte in vantaggio ed è favorito) e se la gioca persino a Roma dove la differenza di voti tra la candidata grillina (Raggi) e il candidato del centrosinistra (Giachetti) è di 130 mila voti, più o meno lo stesso numero di voti (141 mila voti) ottenuti da Marchini (che al ballottaggio sosterrà Giachetti e il Cav. ieri non ha invitato a votare Raggi ma ha detto che voterà scheda bianca) e poco più dello scarto registrato nel 2008 al primo turno tra Francesco Rutelli e Gianni Alemanno (Rutelli fu in vantaggio di 84 mila voti, poi al ballottaggio Alemanno recuperò 180 mila voti e vinse le elezioni). Uno scarto ancora minore è quello che si trova a Milano, dove Sala arriva al ballottaggio forte di appena 4.938 voti di vantaggio su Parisi, e se proprio dobbiamo trovare al voto locale una chiave di lettura nazionale bisogna partire da qui. Milano ci dice infatti che in una città particolarmente in salute i movimenti e i partiti anti sistema fanno fatica (i 5 stelle sono al 10 per cento, la Lega è al 12 per cento ed è stata doppiata da un partito che non esiste più e si chiama Forza Italia). Ma ci dice anche che il modello del candidato trasversale (lo è Parisi, che da posizioni di centrodestra sorride al centrosinistra, e lo è Sala, che da posizioni di centrosinistra sorride al centrodestra) vale l’83 per cento di Milano e che le elezioni si vincono con programmi di governo, provando a conquistare il centro dell’elettorato, e non scopiazzando il Movimento 5 stelle (come ha provato a fare senza risultati la Lega nord, andata così così a Milano, andata male a Torino, dove ottiene il 5,8, e andata ancora peggio a Roma, dove si è fermata al 2,7). Chi non accetta questa logica finisce male – vale anche per Meloni a Roma. E per quanto la minoranza del Pd provi a impostare la sua battaglia congressuale (“dobbiamo guardare a sinistra!”) opponendosi al modello del Partito della nazione per via del risultato ottenuto a Napoli dal Pd sostenuto da Verdini (ma senza rendersi conto che a Napoli il Pd ha perso perché non ha saputo fare opposizione per cinque anni) anche gli avversari interni di Renzi non possono non essersi resi conto che il turno di domenica segna la fine prematura di ogni progetto alternativo che si ponga alla sinistra del Pd (4,7 per cento di Fassina a Roma, 3,7 per cento di Airaudo a Torino, Podemos uguale Perdemos).

 

 

 

Lo schema del Partito della nazione potrà essere messo in discussione quanto si vuole ma laddove lo scontro al ballottaggio sarà tra un partito di sistema e uno anti sistema è pressoché inevitabile che il partito di sistema, per prevalere contro il partito anti sistema, sia competitivo solo nella misura in cui esprime un candidato non solo appetibile ma anche trasversale. Il successo di Fassino a Torino dipenderà dalla capacità di conquistare non tanto i cugini diversi del grillismo (la sinistra a sinistra del Pd) quanto gli elettori di centro. Lo stesso vale per Merola a Bologna. Lo stesso vale per Lettieri a Napoli (è dura). E lo stesso vale per Giachetti a Roma (durissima). Non è uno schema pazzo ma è uno schema naturale che si osserva ormai con continuità anche nel resto del mondo. E’ successo, seppure con traiettorie diverse rispetto a quelle romane, qualche settimana fa in Austria, dove il candidato dell’ultra destra (Hofer) è arrivato al ballottaggio delle presidenziali con il vento in poppa e con 14 punti di vantaggio sul suo avversario (il verde Van der Bellen) salvo poi essere sconfitto al secondo turno (50,4 contro 49,7); ed è successo, facendo girare rapidamente il mappamondo, ieri in Perù, dove il candidato del centrodestra alle presidenziali (Kuczynski) si è ritrovato indietro di sedici punti al primo turno contro il candidato anti sistema (Fujimori), salvo poi recuperare al ballottaggio conquistando gli elettori moderati (è finita 50,5 contro 49,5).

 


Il presidente del Consiglio Matteo Renzi (foto LaPresse)


 

Renzi ha ragione quando dice che il Pd ha dei problemi e che il caso Napoli non va sottovalutato, così come ha ragione il centrodestra quando dice che poteva andare peggio, così come ha ragione il Movimento 5 stelle quando dice che conquistare la Capitale d’Italia sarebbe un segnale da non sottovalutare (alla vittoria della Raggi credono anche molti investitori e molte agenzie di rating: ieri Acea, multiutily romana, ha registrato diversi downgrade, compreso uno di Mediobanca, e ha perso l’1,55 in Borsa, più di quanto abbia perso la multiutility di Torino, la Iren, che ha ceduto l’1 per cento). Una vittoria a Roma del 5 stelle potrebbe far dimenticare il fatto che i grillini sono arrivati al ballottaggio in 20 comuni sui 1.300 nei quali si è votato ieri (l’1,4 per cento del totale, meno dell’8 per cento di quelli in cui si sono presentati) e non sarebbe un segnale drammatico per il Pd. Ovvio. Altro caso sarebbe invece una sconfitta a Milano e Torino. Quando si è al governo, come d’altronde capitava spesso a Berlusconi, alcuni casi possono essere fisiologici. Ma quando trasformi una città come Milano nel simbolo del tuo successo, perdere quella città sarebbe più complicato da spiegare e sarebbe più difficile dire che non è successo niente, come domenica scorsa.

  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.