Con i tory contro la Brexit? Il dilemma-boomerang del Labour
Milano. Mai, mai con i tory. Il diktat laburista riecheggia tra attivisti e leader politici: siamo per il “remain”, per la permanenza del Regno Unito in Europa, ma non faremo campagna referendaria – si vota il 23 giugno – con i conservatori. Lo ha detto il leader del Labour, Jeremy Corbyn, autore la settimana scorsa di un discorso anti Brexit debolissimo (i commentatori presenti dicevano: per fortuna c’è scritto “remain” grosso dietro di lui, altrimenti sembrerebbe un discorso per il “leave”). Lo ha ribadito con ancora più vigore il cancelliere dello Scacchiere ombra, John McDonnell, che si sta preoccupando di inserire nel manifesto laburista quel reddito di cittadinanza che gli svizzeri hanno appena rifiutato, in un referendum, orripilati, e intanto dice: non unitevi ai conservatori, le campagne sono separate. Il blairiano David Miliband, che sta agli antipodi ideologici rispetto alla nuova leadership corbyniana, ha detto: laburisti, non siate tiepidi nei confronti dell’Europa, quando il centrodestra e il centrosinistra sono d’accordo, dobbiamo dirlo”. Ma secondo uno studio condotto dalla campagna ufficiale per il “remain”, che si chiama “Britain Stronger in Europe”, più della metà degli elettori laburisti non sa da che parte sta il loro partito nel referendum.
Il cancelliere dello Scacchiere John McDonnell (foto LaPresse)
Intanto il fronte del “leave” sta riguadagnando terreno nei sondaggi. Nell’ultima settimana sono stati pubblicati almeno quattro sondaggi che segnalano il recupero dei sostenitori della Brexit rispetto agli altri: è il momentum del “leave”, titolano i giornali, e Lynton Crosby, guru di Cameron che analizza per il Daily Telegraph i sondaggi, spiegava ieri che il “leave” cresce tra chi è convinto di andare a votare – un dettaglio rischioso per i leader della campagna del “remain” che hanno da tempo il problema di portare effettivamente alle urne il popolo più eurofilo. Matt Singh, fondatore di Number Cruncher Politics, che tiene monitorati tutti i sondaggi, spiega al Foglio che “il campo del ‘leave’ sembra avere avuto un buon guadagno con l’inizio dei dibattiti televisivi e dalla nuova attenzione posta sull’immigrazione più che sull’economia, argomento che aiuta di più il ‘leave’”. Come spesso accade con i sondaggisti britannici, scottati dagli errori colossali dello scorso anno alle elezioni, Singh aggiunge che “parte della capacità del ‘leave’ di colmare la distanza con il ‘remain’ è stata determinata dal fatto che la scorsa settimana, quando sono stati condotti i sondaggi, le scuole erano chiuse e c’era molta meno gente disponibile a rispondere. Secondo l’ultimissima rilevazione di YouGov, c’è un ritorno a dove si era prima di questa tornata di sondaggi favorevoli al ‘leave’, quindi è possibile che il vantaggio non sia reale”. Fidarsi dei numeri è sempre più difficile, ma l’altalena sondaggistica continua ad aprire ferite nei partiti britannici.
Tra i conservatori, si sa, la guerra è brutale, così come brutale è il “progetto della paura” messo in piedi dai sostenitori del “remain”, in particolare da Cameron e da George Osborne, cancelliere dello Scacchiere. Recessione, guerra, catastrofe, fine del mondo. Oliver Kamm, che si occupa delle pagine degli editoriali del Times e che parlando con il Foglio si definisce “uno dei commentatori più pro Europa di tutta la stampa inglese”, dice che “la decisione di puntare sui pericoli della Brexit invece che sulla potenza dell’Europa è stata una decisione deliberata. E’ molto più efficace presso gli elettori una strategia che stressa i costi economici della Brexit. Penso che sarà sufficiente parlar male della Brexit? Sì, lo penso”. I conservatori pagheranno un prezzo alto, “il partito è malamente diviso, l’unica cosa che lo salva è che i partiti dell’opposizione, fuori dalla Scozia, sono molto deboli”. L’opposizione, appunto.
I laburisti si dividono tra tiepidi ed entusiasti nei confronti dell’Europa, tra corbyniani e anti corbyniani, tra protezionisti e liberali, che è poi la faida che sta spaccando il Labour da molto tempo. Poiché il diritto all’oblio non ce l’ha nessuno, alcuni commentatori sono andati a riesumare le dichiarazioni di Corbyn sulla cosiddetta “Lexit”, l’argomentazione di sinistra per l’uscita dall’Europa, e un tweet di McDonnell, del giugno del 2014, in cui diceva: va bene stare in Europa, ma non nell’Unione europea, bisogna creare una nuova Europa del popolo e non sottostare alla “creatura esistente fatta di banche e corporazioni”. Il “case to remain” nel Labour è invero molto vario. Nelle scorse settimane sono intervenuti nel dibattito due ex premier, Tony Blair e Gordon Brown, con le loro proposte più ottimistiche per rimanere in Europa. Brown ha pubblicato un libro – “Britain: Leading, Not Leaving” – che è un sequel di quello che scrisse prima del referendum scozzese del 2014. Brown non dice che fuori dall’Ue il Regno Unito sarebbe un’isola impoverita e isolata, come fanno i conservatori per il “remain”, ma dice che il progetto europeo deve sempre più assomigliare al modo di vedere il mondo del Regno Unito. Soltanto guidando l’Europa si può davvero trasformare il continente in un’opportunità per tutti, compreso naturalmente il Regno Unito: recensendo il libro, la rivista New Statesman l’ha definito “l’argomentazione patriottica per rimanere in Europa”. E’ lo stesso principio ispiratore di Blair, che quando era ancora premier lanciò una riforma dell’Ue che importasse nel meccanismo europeo lo spirito liberale anglosassone. Il problema semmai è che l’Europa è poco ricettiva, non si è mai riformata, anzi, come dicono i conservatori per il “leave”, primo fra tutti il ministro della Giustizia Michael Gove, l’irriformabilità europea, con la sua vocazione protezionista, è il motivo principale per cui votare per la Brexit.
Il confronto sul liberalismo in realtà è un problema identitario interno al Labour stesso (e a molte sinistre). Tristam Hunt, storico e parlamentare laburista che per un breve periodo provò anche a candidarsi per la leadership del Labour senza successo, ha curato un saggio dal titolo “Labour’s Identity Crisis”, in cui parla delle cosiddette politiche del patriottismo. Hunt dice al Foglio che “nonostante il gran livello di sostegno per l’Europa tra i laburisti, gli elettori chiedono nuovi strumenti per difendere l’interesse nazionale inglese a Bruxelles, e questo spiega anche molte differenze che si vedono per esempio sulla questione dell’immigrazione”. “Leading not leaving” è lo slogan dei laburisti liberali, insomma. Gli altri, che sono la leadership del partito, non ne hanno uno forte, si accodano al catastrofismo conservatore ma allo stesso tempo temono l’alleanza: è difficile sostenere Cameron sull’Europa e criticarlo su tutto il resto, e poi perché – come ha scritto McDonnell – dovremmo fare qualcosa che aiuti i conservatori a rimanere al potere? La divisione non si è rimarginata. Finora soltanto il neo sindaco laburista di Londra, Sadiq Khan, è salito su un palco assieme a Cameron. La mossa non deve aver fatto piacere a Corbyn, ma come spiega Oliver Kamm, “Khan ha un suo mandato separato dal partito nazionale, e non ho alcun dubbio che Khan parli a un gruppo elettorale più ampio di quello cui si rivolge Corbyn con le sue idee di estrema sinistra”. Il problema del Labour non è l’Europa: “Sono le idee estreme e ineleggibili di Corbyn la questione principale”.
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