Il salto di qualità di Renzi serve e passa tra metodo Merkel e modello Totti
Arrivati a questo punto della storia, e rinvigoriti da tre giorni di attente e fondamentali letture relative agli appassionanti trend dei flussi elettorali di Spinaceto e Tor Bella Monaca, a Matteo Renzi non resta che scegliere che strada imboccare. Non ci sono molte opzioni: o si segue il modello Di Battista o si segue il modello Merkel. Seguire la prima opzione, ovvero considerare una priorità assoluta il recupero dei voti grillini, è una tentazione naturale se si crede che il boom del Movimento 5 stelle sia qualcosa di reale, di inesorabile, di definitivo, e non qualcosa relativo invece ad alcuni contesti locali e ad alcune realtà particolari come quelle di Roma e di Torino. Ma per raggiungere un tale obiettivo non ci sarebbe nessun’altra alternativa se non quella di scendere sul terreno scivoloso e viscido della politica blood, blood-shit-and-fuck declinata a volte in modo efficace dal Movimento 5 stelle. Ne vale la pena? Seguire la seconda opzione, invece, entrare in modalità Merkel, è invece una scelta più difficile, meno immediata e più rischiosa ma è forse l’unica strada possibile che Renzi ha di fronte a sé. Il presidente del Consiglio fa bene a non drammatizzare un voto che non ha nulla di nazionale e che a meno di una sconfitta a Milano per il centrosinistra non dirà nulla di importante sullo stato politico del paese (l’istituto Cattaneo ieri ha detto che Grillo anche questa volta è arrivato tre).
Ma al di là del risultato di domenica scorsa non c’è dubbio che il premier è a un passaggio delicato. Resta l’unica alternativa in campo, la sola novità della politica italiana e non esistono nemici così strutturati da impensierirlo neppure in vista del referendum. Tutto questo è vero ma in questa fase a Renzi è richiesto comunque un salto di qualità per accettare un nuovo step della sua vita in cui, per forza di cose, i più credibili interpreti della rottamazione sono coloro che non governano e che chiedono, giustamente dal loro punto di vista, di rottamare chi governa, ovvero Renzi. Quella parte di paese il presidente del Consiglio, a meno di non voler diventare portavoce della politica blood-shit-and-fuck, difficilmente la potrà conquistare e la sua unica possibilità di crescita è dedicarsi alla conquistata dello stesso pubblico e dello stesso elettore della nazione a cui guardano a Milano Beppe Sala e Stefano Parisi. Quando a Renzi dicono che ha un volto “pallido” in fondo gli fanno un complimento e gli riconoscono di essere l’interprete di un’Italia che dopo aver fatto un salto generazionale, spazzato via la sinistra anti mercatista, annientato i rottami del comunismo, disintegrato i vecchi spiriti corporativisti ora, per dirla alla Daniel Cohn-Bendit, chiede solo “di finirla di sparare cazzate”. Per fare questo a Renzi occorre entrare in una modalità diversa, occorre non polarizzare attorno alla sua figura ogni battaglia politica (come dice il saggio, puoi avere tutti i nemici una volta e un nemico per sempre ma non tutti per sempre nemici) e occorre soprattutto cogliere una lezione importante e gustosa arrivata ieri da Roma.
Roberto Giachetti non vincerà le elezioni (forse) grazie al mezzo endorsement di Francesco Totti ma il sostegno di un volto popolare come il capitano giallorosso su un’iniziativa non popolare e anti populista come la scelta di sostenere la corsa di Roma alle Olimpiadi del 2024 (Totti le vuole, Raggi no) in piccolo è il segno che non bisogna necessariamente rincorrere i sondaggi per costruire consenso. Il grande tema dei nostri giorni, non solo in Italia, è se la popolarità la si conquista rincorrendo i follower (followship) o se viceversa la si conquista praticando semplice buon senso (leadership). Se la scelta di Renzi è la seconda, e non la prima, la strada del compromesso storico tra Merkel e Totti è inevitabile. Si potrà perdere a Tor Bella Monaca e Spinaceto ma i leader pallidi e vincenti oggi si costruiscono anche così.