Matteo Renzi e Angela Merkel (foto LaPresse)

Metodo Renzi e metodo Merkel non possono coincidere. Tre ragioni

Veronica De Romanis
Un punto in comune tra i due leader, in realtà, c’è: quello di aver preso la guida del proprio partito attraverso la “rottamazione”. Le analogie, però, finiscono qui.

Al direttore - Come giustamente ha scritto ieri nel suo editoriale, dopo l’esito non proprio soddisfacente del primo turno dell’elezioni amministrative, Matteo Renzi è ad un bivio: “o segue il modello Di Battista o segue il metodo Merkel”. Sebbene sia la soluzione più difficile, entrare in “modalità Merkel” appare come “l’unica possibile” per diventare un vero leader che vince. Che il metodo Merkel sia un metodo vincente lo dimostrano i fatti. Angela Merkel è alla guida della Germania da oltre un decennio (nei suoi anni alla Cancelleria ha visto passare ben quattro primi ministri italiani), è stato l’unico leader europeo rieletto durante la crisi e con ogni probabilità verrà riconfermato nel 2017 per la quarta volta. Ma, come ha precisato lei stessa, adattare il suo modo di fare politica a quello della cancelliera tedesca non sarà affatto facile per il Premier. Un punto in comune tra i due, in realtà, c’è. Quello di aver preso la guida del proprio partito attraverso la “rottamazione”: Renzi ha rottamato la precedente classe dirigente, la Merkel ha mandato a casa Helmut Kohl. Le analogie, però, finiscono qui. Il Metodo Merkel è diverso dal Metodo Renzi per almeno tre motivi. In primo luogo, la cancelliera non cerca – e non si crea – nemici da combattere ma aspetta che chi ostacola il suo cammino esca da solo dalla scena politica (ad esempio, Lothar de Maizière ha dovuto lasciare la vicepresidenza del partito perché sospettato di aver avuto relazioni con la Stasi, Wolfgang Schäuble la presidenza perché coinvolto nello scandalo dei fondi neri). Aspettare le consente di non essere accusata né di ingratitudine né di tradimento e, soprattutto, di poter affermare con serenità che “quando qualcuno libera una poltrona, c’è sempre qualcuno che la occupa”.

 

In secondo luogo, la leader tedesca non rafforza il proprio consenso imbarcando politici degli schieramenti opposti ma allargando il campo di azione del suo partito verso spazi che tradizionalmente sono appannaggio delle altre forze politiche. Lo fa in modo rassicurante, spiegando al suo elettorato perché le posizione possono evolvere. Ad esempio, ha chiuso le centrali nucleari dopo l’incidente di Fukushima in Giappone, tema caro ai verdi, e ha adottato le quote rosa, tema caro ai socialdemocratici. In terzo luogo, Angela Merkel conosce il potere dei numeri, che utilizza – con parsimonia e precisione – per includere gli elettori nel processo decisionale. Ad esempio, quando si trattò di far passare la riforma delle pensioni (operazione che non era riuscita al suo predecessore Schröder) andò in parlamento e spiegò la sua proposta con l’ausilio di quattro dati: la popolazione tedesca invecchia (gli ultracinquantenni nel 2010 saranno circa il 30 per cento del totale), la popolazione cala (dagli attuali 82 milioni si arriverà nei prossimi decenni a meno di settanta milioni), la parte attiva diminuisce (nel 1960 vi erano dieci persone in età lavorativa per un pensionato, nel 2030 saranno solo due), e, infine, come in tutti i paesi sviluppati, la speranza di vita aumenta. Sulla base di questi numeri, secondo la cancelliera, il paese aveva sostanzialmente due scelte: innalzare l’età delle pensioni oppure aumentare i contributi. Il Parlamento adottò la prima opzione. Si potrebbe “entrare in modalità Merkel” cominciando proprio da quest’ultimo punto, che riguarda il sistema pensionistico. La questione andrebbe affrontata sulla base di pochi dati, ma chiari (peraltro non così dissimili da quelli tedeschi). Ciò consentirebbe di dimostrare ai cittadini che, data la situazione attuale, la priorità in Italia non sono le pensioni, bensì l’occupazione giovanile e il basso tasso di occupazione femminile. Pertanto, non serve l’ennesima riforma delle pensioni (né tantomeno la flessibilità in uscita), ma serie politiche attive del mercato del lavoro.

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