Liberale senza sentimento del peccato originale, così Pannella vide l'inferno
Il cuore è una sudicia bottega di straccivendolo, diceva Yeats, e mai ce ne accorgiamo meglio di quando se ne va una persona amata. I lutti privati si addolciscono rovistando nelle credenze, negli album di fotografie, nei bauli di cose dismesse; per l’addio a un uomo pubblico ci sono invece le biblioteche, gli archivi dei giornali, le labirintiche rigatterie della rete. Ma dove frugare quando il morto non appartiene a nessuno dei due regni, conteso tra l’uno e l’altro?
Ho cominciato a collezionare cimeli radicali quando Pannella era ancora vivo, e la nostra breve amicizia li ebbe spesso come pretesto: lui mi invitò a sfogliare vecchi numeri di Liberazione, il quotidiano che diresse, e in buona parte scrisse di suo pugno, tra il 1973 e il 1974; io gli portai il numero di Playboy del gennaio 1975 con le gemelle Kessler in copertina, comprato a caro prezzo su eBay in un accesso di mani bucate, dove c’era una sua lunga intervista con tre bellissime fotografie (“ammazza quanto eri fico da giovane”, gli disse il gestore del Lucano in via di Torre Argentina, e avrebbe voluto appendersi quella pagina nella trattoria). Sognavo di chiedergli un manifesto del referendum Tortora, introvabile in rete, ma me ne mancò il coraggio o l’insolenza. Ora l’intervista a Playboy si può leggere in un libro curato da Lanfranco Palazzolo per Kaos Edizioni (“La rosa nel pugno. Interviste e interventi, 1959-2015”) accanto ad altre memorabili, tra cui una su brigatismo, millenarismo e comunismo al cui paragone sbiadiscono le pagine della Rossanda sull’“album di famiglia”.
Ma quando i lutti pubblici sono anche lutti privati vien voglia prima o poi di fare un sopralluogo in cantina, con la speranza di qualche sorpresa. E così, in un raccoglitore di cartone con la scritta a pennarello “Archivio radicale” ho ripescato un volumetto dimenticato, da me prima di tutto. S’intitolava “Il potere. Colloqui di Massimo De Angelis e Renzo Foa con Andreotti e Pannella”, e uscì come allegato a Liberal nel 1999. Non solo è una delle interviste più belle e limpide che Pannella abbia concesso, perché i suoi pensieri spesso aggrovigliati sono qui dipanati e messi in bella copia, come se li avesse trascritti Massimo Bordin; ma è lo schema quasi plutarchiano dei “colloqui paralleli” a rendere il libro così unico.
Gli stili non potrebbero essere più diversi: laconico, trattenuto, evasivo anche quando pretende di colpire con il pungiglione del sarcasmo Andreotti; straripante, generoso, misteriosamente lieto anche nell’annuncio delle cose più nere Pannella, gioioso di quella gioia che non ha bisogno dell’umorismo, se l’umorismo è un risollevarsi da una caduta o dalla Caduta. Ed è qui, credo, il disaccordo più profondo. I curatori scelsero la chiave del potere e dell’antipotere, dell’eterna maggioranza e dell’eterna minoranza, ma il vero discrimine tra i due era un altro: il peccato originale. Se sotto le freddure di Andreotti covava un piccolo De Maistre, Pannella è stato un liberale (e un cristiano) senza il sentimento del peccato originale, o del male radicale come lo chiamano kantianamente i laici.
La definizione del liberale come anarchico pessimista gli si addiceva poco, e da qui derivavano la sua sconfinata capacità di amicizia e la sua sventatezza politica. Certo, avrebbe voluto allargare alla Prudenza la triade delle virtù teologali, ma era uno scommettitore mosso da un “ottimismo tragico” (gli era cara la formula di Mounier, e anche di questo parlammo, come della comune passione per le pagine dostoevskiane del “Dramma dell’umanesimo ateo” di Henri de Lubac).
Nell’intervista a Foa rivendicava, da vero giocatore, “il rischio di essere liberale e tollerante al punto di scommettere sull’avversario ideologico nel meglio che egli offre di sé”. E non parlava dei “compagni assassini” delle BR, ma di Oscar Luigi Scalfaro, il solo peccato che non riusciva a perdonarsi. “Se esiste un inferno, ci finirò per quello”, mi disse un pomeriggio in trattoria. L’unica volta che lo sentii parlare di inferno.