Marco Pannella, Mauro Mellini, Adele Faccio (foto LaPresse)

Per avere un futuro i Radicali riprendano a ridere, anche dicendo dei “sì” a Renzi

Giovanni Negri

Non devono avere paura di nulla. Come un fiume carsico che appare e si reimmerge, la scommessa con la storia i Radicali non l’hanno persa, l’hanno vinta. Si sono reincarnati tante volte.

Il bello dei Radicali è stato e sarà anche questo: poter contare su alcune persone straordinariamente non radicali ma capaci di regalarci la loro attenzione. Un’osservazione minuta, quasi feroce nelle puntuali parole sull’avventura radicale, e che dei Radicali hanno scandito il viaggio. Butto lì in disordine: Montanelli, Ceronetti, Pasolini. Eco che su un certo signore aveva già pronto un libro (purtroppo non dato alle stampe, mai riuscito a capire perché). E Sofri, il Sofri giovane che apprezza quei pazzi borghesi mentre gli altri sessantottini fanno spallucce e il Sofri dopo (“Il congresso radicale, che è un po’ il compleanno di Marco Pannella” merita ancora oggi una sorridente standing ovation). Fra costoro spicca lui, il prete Baget Bozzo: “Quelle dei Radicali sono le parole di una minoranza politica che può esprimere e organizzare maggioranze sociali”, e accanto a costoro per me c’è un professore che leggo da 40 anni senza riuscire a dissentire una sola volta, ma prima o poi con Panebianco conto di riuscire a litigarci, giusto per trovare l’eccezione alla regola.

 

Veniamo al punto, alle domande e alle risposte di Sofri. Ecco, sarà che io sono molto cambiato, sarà che in questi ultimi vent’anni le mie braccia sono state (fortunatamente) restituite all’agricoltura, ma leggendo Adriano mi è esplosa dentro: di cosa hanno bisogno i Radicali? Intanto di ridere. Ridere, ridere tanto di loro stessi, degli altri, della vita. Hanno bisogno di andare subito al mare, di gettarsi e nuotare, di mettere la testa sottacqua come il protagonista del film di Virzì che si chiude proprio così, con lui che va dall’amico psicanalista perché è tutto un problema, uno sconforto, ha bisogno delle pastiglie ma quello lo guarda negli occhi: "Senti, hai mai provato con un bel bagno al mare?". E poi, dopo il mare, hanno bisogno di due cose: meno beatificatori – meno giaculatorie che ripetono quanto siete buoni e probi e santi e giusti e saggi – e più cattivi ragazzi. Anzi: un partito di cattive ragazze e di cattivi ragazzi. Ricordo ancora quando fu detto a me, e ricordo le infinite volte che ho rivisto la scena. Cento ragazzi per bene come fui pure io, con la cravatta giusta e l’aria perfettina più o meno bocconiana, si avvicinavano all’omone , venivano avanti e parlavano timidi ma non riuscivano mai a terminare la frase: “Sei davvero un ragazzo per bene. Ma a noi non interessano i bravi ragazzi. Sono i cattivi quelli che arruoliamo”.

 

E il resto? Da vecchio uomo di partito credo al fermo rispetto di regole, statuti, organi. Se ci sono mandati, lasciti, compiti, enti di gestione concepiti e voluti, ebbene vanno rispettati alla lettera e senza discussioni, così come vanno rispettate le persone che li rappresentano. Radio Radicale? Non si tocca, speriamo aumenti le sue frequenze. Il Partito radicale transnazionale? Bene come dice Sofri, facendo fiorire i pensieri. Butto lì: all’idea stessa di partiti transnazionali in un mondo globale, l’umanità pare aver giocato uno scherzo birbone. Più urli Onu più l’eco reclama Catalogna, Scozia, Baviera. Più proponi l’Esperanto più si difendono i dialetti. L’antico adagio “piccolo è bello” pare avere avuto successo, e gli stati nazionali hanno tutti gli orrendi e noti limiti, salvo che in assenza di istituzioni e modelli di democrazie sovra o transnazionali è difficile abbandonare sovranità e democrazie nazionali conquistate col sangue. Quindi a mio avviso non serve tornare indietro, ma un check forse sì. Poi c’è da scalare una montagna teorica, la cui vetta è ancora avvolta da coltri di nubi. Se è la nonviolenza il collante di metodo di un partito transnazionale, quale il suo rapporto con l’uso della forza? Quale l’uso legittimo della forza per il nonviolento? Quale divisa il nonviolento può arrivare a indossare, e quale mai indosserà? Il resto è già tutto scritto da Sofri, oppure possiamo sognarlo. Certo: è dentro la lotta alla fame e al sottosviluppo condotta nel secolo scorso che vanno cercate le strade – altre e diverse dalle scorciatoie dei Muri e dell’Accoglienza Buonista illimitata – per ricondurre a umanità e ragionevolezza la politica ai tempi delle grandi migrazioni.

 

E ancora, questo il sogno, se i giorni che viviamo sono almeno pari per velocità di innovazione ai formidabili 1830-1860 che trasformarono il mondo (macchina da scrivere, frigo, colt, telegrafo, pastorizzazione, dinamite, telefono, fotografia, battello a vapore e tanto altro) sarebbe davvero bello e utile un partito transnazionale che consapevole della lezione di Piero Melograni non avesse paura di affrontare la modernità e i suoi nemici, spiegando concretamente come questa piuttosto che quella innovazione (medica, genetica, tecnologica poco importa) potrebbe modificare strutturalmente (nel bene o nel male) le condizioni di vita e di benessere di una o più porzioni di umanità, in una o più parti del pianeta. Lo so: le multinazionali e alcuni grandi think tank globali già testano prodotti e invenzioni saggiandone impatti sociali e mercati ma – senza criminalizzare alcun istinto di profitto – tale è la dimensione, la profondità delle innovazioni in atto, da rendere insensato che la politica, una politica che voglia reclamare il proprio primato, trascuri le cinquanta sfumature possibili di modernità, e il non trascurarle, il divulgarle mi pare – questa sì – ambizione, sfida propriamente transnazionale.

 

Ma soprattutto: i Radicali non devono avere paura di nulla. Come un fiume carsico che appare e si reimmerge, la scommessa con la storia i Radicali non l’hanno persa, l’hanno vinta. Si sono reincarnati tante volte. Erano bambini che correvano lungo il Tamigi quando Geremia spiegava che “l’utilitarismo e l’agire sociale devono consistere nel creare la maggiore felicità possibile del maggior numero possibile di persone”, guardavano Danton spiegare alle puttane di Saint Germain cosa stesse facendo l’Assemblea, erano con Goffredino il cantautore che a 22 anni si andò a beccare quella maledetta pallottola al Gianicolo cantando la sua fottuta canzone, hanno messo la stella al petto quando a Monaco hanno preso David e tutta la sua famiglia, erano a Praga a piangere Jan e a fare evadere Havel dalla galera mentre Sartre pontificava stronzate sulle progressive sorti dei Soviet, e intanto hanno (lui ha) cambiato l’Italia. Che cosa dovremmo mai temere con tutte quelle che abbiamo visto? Abbiamo visto i grandi, cupi inquisitori trasformarsi in candidi teologi di strane liberazioni, i fascisti torvi cambiare casacca, gli assalitori di palazzi d’inverno ormai contenti di organizzare le slow cene d’autunno, i Chavez giudiziari diventare ministri ma poi dissolversi nel nulla. Di cosa dobbiamo avere paura? Non siamo fascisti, non comunisti, non clericali, non abbiamo nulla da rinnegare, da manipolare, da dimenticare. Possiamo sorridere. Anche e persino in Italia? Penso di sì. Certo: non chiedeteci di pregare, di diffondere la buona novella , di fare l’assalto al cielo o la decrescita felice. Per fare queste cose ci siete già voi non radicali. Noi non serviamo.

 

Noi che siamo i carbonari, i framassoni, noi antimilitaristi che rendiamo onore al generale Mori, noi che i casi Tortora non sono solo Enzo, noi che viva i Montagnard ma anche Sciascia ci piaceva tanto, noi molto radical e niente chic, noi che non baratteremo mai Hugo Pratt per Eugenio Scalfari, insomma noi della Marianna ieri oggi domani e sempre, quel che dobbiamo fare grosso modo lo sappiamo, ed è persino scritto nella mozione che il partito italiano lo sciolse: “Il Partito radicale, nel momento in cui decide di rinunciare anche e in primo luogo in Italia alle competizioni elettorali, consegna ai radicali la responsabilità di perseguire con il massimo di iniziativa la promozione di nuovi soggetti politici riformatori e di aggregazioni politiche ed elettorali capaci di prefigurare una forza laica di alternativa che possa governare la trasformazione democratica delle istituzioni” (Mozione generale del 34° congresso del Partito radicale, 2-6 Gennaio 1988).

 

Ecco, tutto qui. Perciò in Italia chi vuole tessere, filare, costruire, fare, non solo a mio avviso può ma deve, a maggior ragione se si hanno quasi 60 anni e non si avrebbe mai immaginato di vedere un paese ridotto così. In questi giorni è stato ad esempio costituito “Radicali per il Sì-Sì per i Radicali”. Saremo in piazza a Parma il 18 e a Milano il 23, abbiamo in testa quattro proposte quattro da mettere sotto il naso a governo e opposizione, in nome delle quali chiamare i cittadini non alle armi ma a Convenzione, magari in quei giorni intorno ai Santi, quando certi cattivi ragazzi si trovavano perché erano i giorni giusti. Questa la nostra strada ma viva, davvero viva chi invece ha in testa di fare altro. Noi, così presuntuosi da illuderci di sapere da dove veniamo, chi siamo e dove andiamo, abbiamo in testa la Convenzione della Marianna. Per fare poi cosa? Vedremo, se convinti i convenuti converranno di fare qualcosa. E’ una follia? Sì. Candidati allo schianto? Quasi certo. Perché? Perché dobbiamo. E perché dobbiamo? Perché a casa abbiamo uno specchio. E avendo a disposizione solo tre lustri di lucidità e di vita – se la Provvidenza Laica i tre lustri vorrà accordarceli – intendiamo guardarci allo specchio e dirci che stiamo onorando il nostro dovere civile. Perciò viva, ancor meglio e di più, il partito radicale transnazionale. E come dicevano quei Radicali là, allonsanfan.

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