Perché la buona scuola è pubblica ma non per forza statale. Uno studio
Roma. L’ultima polemica sulla scuola ha riguardato un emendamento del ministro dell’Istruzione, Stefania Giannini, che assegna alle scuole paritarie un contributo da 1.000 euro l’anno per i 12 mila studenti con disabilità accolti. Alcune frange dell’opposizione hanno visto il provvedimento come l’ennesimo regalo alle “scuole private”, quando in realtà si tratta di una parziale riparazione della discriminazione che subiscono le famiglie che scelgono una scuola pubblica paritaria per i propri figli. Si parlerà anche di questo al convegno “Basta poco per apprendere” in programma oggi a Roma, a cui parteciperà anche la Giannini. Il dibattito prende spunto da una monografia, intitolata “Il diritto di apprendere” (Giappichelli editore), che si pone il problema di superare un sistema scolastico che, oltre a impedire l’esercizio di alcuni diritti come la libertà di scelta e la responsabilità educativa delle famiglie, è anche “classista, regionalista e discriminatorio”, secondo l’autrice Anna Monia Alfieri: “Questo sistema è classista perché permette solo ai ricchi di poter scegliere in quale scuola mandare i figli. E’ regionalista perché l’Italia va molto male nei test Ocse-Pisa sulla preparazione degli studenti, ma la Lombardia e il Veneto arrivano sopra la media mentre la Campania e la Sicilia arrivano molto al di sotto. Ed è discriminatorio perché i bambini portatori di handicap delle scuole private non hanno diritto ad alcun sostegno da parte dello stato”.
Solitamente si indica come causa dei problemi della scuola la mancanza di soldi. Ma non è così. Se si guarda alla spesa per studente, storicamente l’Italia spende più degli altri paesi: il vero problema è che spende male. La soluzione proposta da Anna Monia Alfieri è l’introduzione di un “costo standard per allievo” come strumento di finanziamento delle scuole pubbliche statali e paritarie, che dovrebbe da un lato garantire la libertà di scelta delle famiglie e dall’altro innescare un meccanismo che premi le scuole più efficienti e penalizzi quelle più scadenti, spingendo tutti a migliorare l’offerta formativa. Naturalmente il diavolo si nasconde nei dettagli, molto dipende da come il “costo standard” viene disegnato e dai parametri utilizzati per misurare l’efficienza, ma senza dubbio il sistema avrebbe il merito di far competere scuole statali e paritarie ad armi pari, come già accade in altri settori, come la Sanità, dove i cittadini scelgono le strutture che ritengono migliori indipendentemente dalla natura statale o privata delle stesse.
Andrea Ichino, economista dello European University Institute, che da tempo si occupa dei problemi della scuola, dice che l’introduzione del concetto di costo standard serve solo se si accompagna a una riforma che consenta una gestione autonoma delle scuole pubbliche e dei loro budget. “Siamo abituati a pensare che nella scuola lo stato abbia tre funzioni: finanziare, regolare e gestire – dice Ichino al Foglio – Ecco, io penso che lo stato debba finanziare e regolare le scuole pubbliche, ma non è detto che le debba gestire. Gli esempi delle charter school negli Stati Uniti e delle school academies nel Regno Unito, dimostrano che soggetti diversi dallo stato, liberi di gestire personale, risorse e programmi entro limiti precisi, sono spesso in grado di far funzionare le scuole molto meglio dello stato stesso, soprattutto nei quartieri più disagiati. E non sta scritto da nessuna parte che questi gestori debbano essere di ispirazione religiosa, anzi!”.
L’idea dei costi standard, così come quella di valutare scuole e insegnanti, scatena sempre polemiche. “Il tema è complesso, perché è vero che si possono fare delle misurazioni, ma nessuna è perfetta e quindi valutare sulla base di queste misurazioni e trarne conseguenze in termini di erogazione di fondi e stipendi potrebbe essere molto distorsivo – dice Ichino – La risposta che danno i sindacati è che quindi non ci deve essere alcuna valutazione. La mia proposta, lanciata insieme a Guido Tabellini, è invece che lo stato raccolga le informazioni elementari necessarie per la valutazione di ogni scuola (ad esempio, i tassi di abbandono scolastico, i tassi di successo dei diplomati, il numero di docenti per studente, i tassi di assenteismo degli insegnanti, i risultati dei test Invalsi), senza stilare classifiche, ma rendendo i dati pubblici in modo che i cittadini possano aggregarli come preferiscono per scegliere la scuola da loro ritenuta migliore per i propri figli”. Insomma, la buona scuola è pubblica ma non necessariamente gestita dallo stato: la differenza è importante.