Massimo D'Alema (foto LaPresse)

Il Massimo della vendetta

Cosa c'è dietro la non smentita di D'Alema che vota Raggi (e Parisi)

Salvatore Merlo
Un pazzotico desiderio di perdere le elezioni eccita gli antirenziani del Pd. “Torino, dobbiamo perdere a Torino!”.

Caro lettore, anche se ti confondi non ti preoccupare, non sei il solo: Repubblica scrive che certi amici di Massimo D’Alema avrebbero raccontato che D’Alema avrebbe detto loro di voler votare Virginia Raggi pur di liberarsi di Matteo Renzi. Allora Matteo Orfini, presidente del Pd, ha chiesto a D’Alema di smentire quello che questi amici avrebbero detto che lui avrebbe detto. Cosa che in effetti D’Alema ha fatto: ha smentito di aver detto quello che i suoi amici avrebbero detto che lui avrebbe detto. Il problema però, fanno notare nel Pd, è che D’Alema, nella smentita, non dice di aver al contrario detto agli amici che lui avrebbe votato per Roberto Giachetti, cioè per il Pd. Tutto chiaro, no? Mica tanto. Per prima cosa occorre superare l’impressione immediata di essere in presenza d’un partito giunto ormai alle frontiere del Cottolengo, cioè una comunità politica che per un giorno intero si accapiglia e si contorce su un retroscena, su un groviglio di condizionali, di allusioni e di sott’intesi. Bisogna cercare piuttosto di capire, con pazienza e umana compassione, che cosa ci sia dietro l’abbastanza surreale richiesta di smentita di Orfini, cui è seguita una surreale smentita di D’Alema, che tuttavia non ha smentito nulla, ma che è diventata l’amplificatore della notizia, o meglio, come direbbe il protagonista di questa storia, è diventata una costola della notizia stessa.

 

Il personaggio di D’Alema, si sa, è perpetua invenzione di se stesso: è stato lo spavaldo leader del riformismo italiano, è stato quello che metteva Prodi nel sacco, è stato ministro degli Esteri e presidente del Consiglio, e adesso, da circa tre anni, è un’altra cosa ancora: ha fatto della rivincita su Renzi il tessuto della sua nuova esistenza, la trama delle sue soddisfazioni, la polpa delle sue aspirazioni. E non ne fa mistero. La vendetta di D’Alema, come quella di un personaggio di Dumas, è la sola cosa certa, famigliare, ripetitiva e rassicurante cui si possa guardare con fiducia nell’Italia e nel mondo di oggi: tramontano le Pleiadi, l’Orsa sparisce, si sciolgono i ghiacciai, si estinguono le api, ma sappiamo che D’Alema inanella discorsi dall’aria minacciosa. L’ultima volta è stata con Aldo Cazzullo, sul Corriere della Sera: “Scissione? Sta crescendo un enorme malessere”.

 

E insomma non può stupire che nessuno si sia realmente stupito – scusate l’imbroglio di parole, ma l’imbroglio è nella parola – che qualche amico di D’Alema avrebbe detto a Repubblica che D’Alema avrebbe detto che lui pur di cacciare Renzi sarebbe pronto a votare anche Raggi. Se è per questo, a Milano, tutti dicono che D’Alema tifa per Stefano Parisi, il candidato di Forza Italia. E sembra infatti quasi di vederlo, con l’aria di sapiente giocatore pronto a raccogliere il frutto di una serie di mosse infallibili, arricciato attorno ai suoi baffi, mentre dice: “Direi sì anche a Lucifero per mandare via Renzi”. E d’altra parte non è mica l’unico, D’Alema. Quello della vendetta, nel Pd, è un clima. Basta farsi una passeggiata tra i parlamentari, nei rivoli della minoranza, in Parlamento o nei talk-show, tra i portavoce più o meno militanti, per raccogliere lo struggente logorarsi delle passioni intorno a queste elezioni amministrative e al destino di Renzi. “Se perdiamo Roma e Milano forse non basta… Ci vorrebbe anche Torino. Bisogna perdere a Torino!”. E alcuni sono pervasi da uno strano spirito passivo-aggressivo: restano a discutere disincarnati problemi concernenti il fine mistico del renzismo, molto spesso inteso come ingiusta punizione divina toccata loro in sorte, un flagello, la maledizione di Montezuma. I più ottimisti invece disegnano una sorta di controrealtà, o realtà ideale, nella quale presumono di muoversi: “Se perde le amministrative, allora facciamo un bel governo Padoan”. E dunque citano Landini, Emiliano, persino l’incolpevole Enrico Letta… E quasi viene un capogiro dall’ascoltarli dar corpo e suono al museo d’ombre che si portano dentro la testa mentre aspettano i ballottaggi. E uno chiede a D’Alema di smentire?

  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi universitaria in Inghilterra. Ho vinto alcuni dei principali premi giornalistici italiani, tra cui il Premiolino (2023) e il premio Biagio Agnes (2024) per la carta stampata. Giornalista parlamentare, responsabile del servizio politico e del sito web, lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.