La Confraternita della Trattativa
Un libro di Bruno Cavallone, appena pubblicato da Adelphi, restituisce attualità e lucentezza a Miss Flite, la vecchietta che in Bleak House di Dickens si apposta giorno dopo giorno nei corridoi della Court of Chancery trascinandosi dietro una borsa con i suoi “documenti”, nella perenne attesa di un “giorno del giudizio” che dovrà finalmente restituirle il patrimonio perduto a seguito di remote e intrigatissime vicende giudiziarie. Miss Flite cerca nient’altro che un po’ di giustizia e chiunque abbia avuto a che fare con un tribunale, con una procura o con una corte d’appello sa di quale sale è fatta la sua peregrinazione tra le aule e i corridoi della Court. La curiosità, semmai, sta nei documenti. Quali prove, quali denunce, quali speranze custodiva la vecchietta di Dickens? E soprattutto: quali domande tirerebbe fuori oggi dalla sua borsa se, per un miracolo della natura e della letteratura, Miss Flite – con la sua tenacia di fata malvagia – capitasse in uno degli imperiosi palazzi che da Trieste in giù amministrano la giustizia in nome del popolo italiano?
Pensate: per affermare le sue ragioni questa donna fragile e svampita ha percorso venti miglia a piedi, dalla City a Bleak House, “in a pair of dancing shoes”, senza beccare nemmeno un raffreddore. Potrebbe mai nutrire una qualche soggezione per un magistrato, per un pubblico ministero, per un inquisitore scortato e incoccardato o per Piercamillo Davigo, il più puro e il più duro di tutti i magistrati?
Cominciamo con la domanda che Miss Flite potrebbe porre proprio a lui, al presidente dell’Anm. Gentile dottor Davigo, stando alle statistiche che lei avrà certamente sul tavolo, può dirmi se per caso sia mai stato rilevato un caso di assenteismo tra gli ottomila magistrati che compongono il glorioso esercito della giustizia italiana?
Stando alla memoria rocciosa e inossidabile di Miss Flite il vizietto dell’assenteismo colpisce tutte le categorie, dagli ospedali agli uffici statali, ma non i palazzi di giustizia. Qui tutti i dipendenti entrano alle otto e trenta, né dieci minuti prima né dieci minuti dopo, ed escono alle quattro del pomeriggio; lavorano tutti disciplinatamente sette ore al giorno con una sola pausa per il caffè e non c’è un solo pm che oggi possa assentarsi per un convegno, domani per un’intervista e dopodomani per prendere parte a un talk-show; non c’è giudice di tribunale o di corte d’assise che oggi possa rinviare il processo per una conferenza sulla legalità, domani per presentare il libro del collega e dopodomani per scrivere l’articolo che gli è stato chiesto “con tanta insistenza” dall’autorevole direttore del più accreditato quotidiano di cronaca e attualità.
Bene. Molti suoi dotti e impennacchiati colleghi, egregio dottor Davigo, dibattono da sempre sui vergognosi tempi della giustizia. E per accelerare inchieste e processi propongono le soluzioni più azzardate e, al tempo stesso, più traumatiche. Il rimedio che, soprattutto in questi mesi, va per la maggiore, è quello di allungare i tempi della prescrizione. Certo, i diritti dei cittadini che cercano giustizia si ridurrebbero drammaticamente, ma in compenso la morte naturale del processo non arriverebbe mai.
Piercamillo Davigo (foto LaPresse)
L’altro rimedio suggerito dall’ala più illuminata della magistratura è una sottospecie della cosiddetta giustizia sostanziale: eliminiamo il giudizio di appello, lasciamo primo grado e Cassazione e non ne parliamo più. Così dicono.
Certo, sarebbe anche questo un ulteriore colpo ai diritti dell’imputato, ma chi se ne frega. L’importante è mantenere intatti i sacri e inviolabili diritti dei magistrati. Che, come lei sa bene caro dottor Davigo, lavorano senza tregua e senza distrazioni dalle sette alle otto ore al giorno. Con il miracolo, tutto italiano, che tra gli ottomila componenti dell’esercito giudiziario non c’è neppure un assenteista. Perché, se ci fosse, lei – smentendo platealmente l’odiosa maldicenza del cane che non mangia cane – lo avrebbe certamente denunciato. Con grande sollievo di tutte le fate malvagie, come la signorina Flite, secondo le quali gli insopportabili tempi della giustizia italiana dipendono anche dal fatto che nei tribunali nessuno controlla, in maniera seria e manageriale, né gli orari di lavoro né la produttività dei singoli magistrati. In quell’immenso paradiso della flessibilità in cui si avvoltolano le toghe di ogni ordine e grado, un controllo, anche il più minuto, suonerebbe come un oltraggio all’autonomia e all’indipendenza che la magistratura vanta nei confronti di ogni altro potere. Una sorta di beata immunità. Che spesso equivale al diritto di fare, disfare e strafare senza mai pagare pegno.
Ed è a questo punto che l’eroina di Bleak House tirerebbe dalla borsa la sua seconda domanda. Da indirizzare non più a Davigo, che resta pur sempre il leader di un sindacato di categoria, ma al capo dello stato, Sergio Mattarella, che secondo il dettato della Costituzione è anche il presidente del Consiglio superiore della magistratura. La domanda è semplice e Miss Flite la pone addirittura con “lo stupore bianco dei sonnambuli”: nei palazzi di giustizia è stato mai inquisito o perseguito, scelga lei Presidente, un pubblico ministero che, avvalendosi del suo straordinario potere e dei suoi micidiali moduli, tra cui quello di firmare la richiesta di un ordine di cattura, sia andato al di là dei confini tracciati dalla legge?
Se l’ultimo impiegatuzzo del più sperduto comune d’Italia autorizza, senza le necessarie procedure, la spesa di trecento euro per tamponare in fretta e furia una frana, rischia di finire in una inchiesta giudiziaria che immediatamente lo mette sotto scopa per “abuso di ufficio”, un reato duttile e malleabile con il quale sono stati fatti fuori centinaia e centinaia di amministratori locali. Ma chi chiamerà mai a rispondere dell’enorme danno procurato al bilancio dello stato quel pubblico ministero, che magari spinto dall’ambizione di presentarsi alle elezioni che cadevano da lì a un anno, ha montato un colossale processo ricco di strabilianti effetti mediatici ma poverissimo di prove e contenuti? Altro che i trecento euro spesi dall’impiegatuzzo di Roccacannuccia per riparare in fretta e furia la strada che franava. Qui ballano i milioni di euro gettati al vento e balla soprattutto la dignità di uomini che, per effetto di un capriccio giudiziario, si trovano da anni imprigionati in un meccanismo dal quale potranno uscire, se mai ne usciranno, non prima di cinque o sette anni. Con la beffa che nessuno pagherà mai il conto di quel capriccio e di tutti i capricci che nascono e fioriscono all’ombra dell’impunità che il sistema assegna di fatto all’ordine giudiziario.
Per carità, nessun riferimento al processo sulla Trattativa che da oltre tre anni si celebra davanti alla Corte di assise di Palermo. Miss Flite, essendo nata nella mente di Dickens attorno al 1852, non ha avuto certamente modo di leggere le carte. Perché, se le avesse lette, avrebbe scoperto, in aggiunta a tutte le storture che sin qui sono state denunciate, un fenomeno difficile da riscontrare a Bleak House o a Londra o in qualunque altro luogo geometrico dell’universo mondo giudiziario: il fenomeno della claque.
Il processo di Palermo – ormai lo sanno anche i bambinetti dell’asilo – non ha un movente, perché gli stragisti di Cosa nostra che avrebbero trattato con lo stato, da Totò Riina a Bernardo Provenzano, sono tutti in galera, sepolti e agonizzanti nelle segrete del 41 bis; e non ha neppure solide prove, perché il principale testimone dell’accusa è un pataccaro, sotto processo per calunnia e altre devianze non proprio trascurabili. In compenso però l’inchiesta imbastita dall’ex pm Antonio Ingroia e avallata dal gip Piergiorgio Morosini, può contare su uno zoccolo duro di appassionati che, pur di mantenere alta la tensione attorno a un dibattimento affogato ormai nel nerofondo della noia e della inconcludenza, agita lo spauracchio di una mafia ancora potente, anzi potentissima, e per questo al centro di trame oscure, di regie occulte, di tavoli ovali, di complotti invisibili, di cospirazioni sommerse, di complicità inconfessabili. E’ la Confraternita della Trattativa, bellezza. Una cupoletta di amabili visionari – uno di questi mostra pure le stimmate, come padre Pio – sotto la quale hanno trovato riparo i soggetti più bizzarri dell’indomita società civile: ci sono quei pochi, pochissimi, magistrati che ancora credono in questo processo; ci sono due o tre giornalisti che non si rassegnano al concetto che la guerra è finita; c’è un malmostoso ex ufficiale dei carabinieri che non ha mai digerito il fatto che Giovanni Falcone, negli anni del maxi processo, gli preferisse Gianni De Gennaro, super investigatore della polizia; c’è un gruppetto di studenti, massimo una quarantina, che per lo strazio del traffico sfila ogni tanto in difesa dei nostri eroi; e c’è soprattutto un sottobosco di associazioni, ciascuna con il proprio sito e con il proprio grado di credibilità, che pur di raggranellare qualche soldo dai fondi riservati del ministero dell’Interno, sono diventate i Guardiani della Trattativa, pronti ad aggredire chiunque sollevi un dubbio su quell’inchiesta.
“Viva, viva la Trattativa”, verrebbe da canticchiare di fronte a tutte le mezzecalzette che popolano quest’ultima stagione dell’antimafia militante: si muovono su un filo d’azione così avventato, scriverebbe Miss Flite, “che basterebbe un niente a spericolarle nella parodia e nella caricatura”.
Povero Mattarella, che cosa gli tocca vedere.