Quei cattivi perdenti. Molte risate
Sore losers, cattivi perdenti. Penso a tre casi estremi, tre caratteri italiani in grande spolvero: Antonio Moresco, Massimo D’Alema, Enrico Letta. Non conoscendo il fair play, ma solo le bastonate e la vendetta, è ovvio che non possiamo giocare a fare gli anglosassoni. Ci compiangiamo addosso per natura, il lamento è longanesianamente iscritto nel tricolore italiano: ho famiglia. La derrota, la sconfitta, sarà anche il blasone dell’anima bennata, almeno nella Spagna di Cervantes, ma è una tremenda rottura di coglioni, almeno nell’Italia di Moresco. Vincere è meglio.
Detto questo, ci sono esempi da manuale. Forse bisognerebbe attenuarsi, almeno nei difetti. Bisognerebbe praticare il vizietto, ma senza gli aspetti caricaturali. Basterebbe questo. Basterebbe che il grande scrittore misconosciuto, presentato da Daria Bignardi e Tiziano Scarpa, che sconosciuti e mendichi non sono, evitasse di chiagnere in prima su Repubblica parlando del suo libro in gara, escluso dalla cinquina di casa Bellonci, come del “più ardimentoso fra i miei romanzi brevi”, come di un libro, per essere ancora più chiari, “così anomalo e poco accomodante”. Basterebbe che non ricorresse al famoso marchingegno di dire che ha accettato di correre allo Strega per soddisfare al prurito di un amico “cui mi legava un debito di riconoscenza”, invece che per triplicare o quadruplicare le copie vendute in libreria e le royalties connesse. Basterebbe che non si definisse mediante citazioni di astanti “un alieno al Premio Strega”, l’alieno alienato fa molto ridere. E che non affermasse con perentorietà moralistica male collocata che l’alternativa è “tra vincere male e perdere bene”. Lo scrittore, per elementare sensibilità, dovrebbe sapere che l’alternativa è tra perdere bene, con noncuranza e dissimulazione almeno dell’amarezza, e perdere male. Perdere bene significa una cosa semplice: non te la prendi con “i novantenni che vantano la loro longevità”, con il fumo di lobby di “scrittori che abitano tutti a Roma, nessuno escluso”, e perfino con i calici, gli omaggi insinceri e altri dettagli da Liala dell’Apocalisse, non dici che hai “assistito al consumarsi di un antico rito” di merda quando è evidente che a quel rito hai partecipato e che se i novantenni, i calici e la piccola cerchia di pippe dell’editoria ti avessero votato nella cinquina ora saresti rimborsato e soddisfatto, insomma un cattivo vincente.
Massimo D’Alema pare non raccolga la cacca del suo Labrador, almeno secondo la testimonianza frivola e divertita di Maria Teresa Meli, di cui mi fido più che di me stesso. Peccato veniale, in una città come Roma. Io ne ho tre di canuzze, ma sono bassottine e basta un kleenex, che non mi manca mai. Per il cagnone di Massimo ci vuol altro: per quelle montagne occorre la paletta o il rotolo di plastica, e tanta pazienza. Vabbè. Ma Roma è anche il voto molto segreto e appena smentito per la Raggi, la proposta di fare il vice Raggi per la cultura al critico d’arte che si porta tra i costituzionalisti dei comitati per il “no”, Tomaso Montanari. Roma è l’ipotesi della vendetta o dispetto come risorsa del cattivo perdente, uno che diceva bye bye a Condi Rice, per telefonino dalle acque dell’isola di Marettimo, uno che o fa vela in carbonio o produce ottimo vino umbro per le cooperative, uno che “non ho mai perso un congresso”, insomma uno ganzo.
Qualche volta Travaglio ha ragione, però. Che problema ci sarà mai a votare la Raggi? Io se vincesse, l’ho già detto, me le taglierei, trovandole. Voterò Giachetti perché è stato il peggior candidato della storia comunale di Roma, non un’idea forte, ma anche solo una battuta, le liste sottoposte alla Bindi per paura della mafia di Ostia, quell’aria spaesata e “poco autorevole” (la definizione è di D’Alema, quando le cose le diceva in pubblico e senza smentirle per finta). Il peggiore. Sono infatti convinto che per governare i peggiori cittadini del mondo, un ammasso di pellegrini cenciosi verbosi e un po’ ladri, ci voglia un tizio che non sa persuaderli. Uno che è privo di empatia, che come i suoi amministrati non sa bene che fare e non raccoglie la cacca del cane. D’Alema fa benissimo a votare Virginia, e guai se mi tradisse definitivamente sottomettendosi al rito del gazebo. E nessuno nel dibattito nazionale potrà mai rimproverarlo come fosse un capro espiatorio, infatti Renzi ha detto giustamente che si eleggono sindaci e non un governo. E io aggiungo che anche le identità personali sono confuse dal voto: a me, tendenzialmente parisiano a Milano (sapessi com’è strano essere parisiano a Milano), fa un po’ senso convergere con Dario Fo e con Antonio Di Pietro, ma pazienza, bisogna portare pazienza. Questo è il tratto, diciamo signorile, dei possibili vincenti e dei possibili perdenti del ballottaggio.
Non posso a questo punto trascurare Enrico Letta, il soreloserismo nasce con lui e con la sua campanellina muta al passaggio delle consegne con “l’usurpatore” (anche quel Montanari, che non vale un’unghia delle orde di tedeschi e francesi scelti dal governo per i musei, lo definisce antiberlusconianamente così: l’usurpatore). Fatto il suo show, Enrico è andato a insegnare la politica ai francesi, e si raccoglie in meditazione nella Cattedrale di Saint Denis, dove giacciono le spoglie marmoree dello stato e della monarchia, i franceschi, gli enrichi, i carli, le medici e i luigi del destino. Parigi val bene una lezione. A Sciences Po, poi. “Ma in perfetto francese”, mi ha assicurato sorridendo un banchiere spiritoso incontrato a place de l’Odeon. Cattivo perdente, ma in buon francese.