Il Principe contro la Fortuna
Quando si cominciò a evocare il cinismo di Matteo Renzi e a farne uno scolaro di Niccolò Machiavelli, pensai: magari! Machiavelli era tutt’altro che cinico. Il brano del Principe che si adatta, fatte le proporzioni fra i due Segretari fiorentini, alla discussione su Renzi, è nel celebre capitolo XXV sulla Fortuna. Renzi giocò d’azzardo sulla ruota della fortuna, facendo sua la conclusione machiavelliana che sia meglio “essere impetuoso, che rispettivo / cioè cauto, / perché la Fortuna è donna; ed è necessario, volendola tener sotto, batterla, ed urtarla... E però sempre, come donna, è amica de’ giovani, perché sono meno rispettivi, più feroci, e con più audacia la comandano”. Procedendo impetuosamente e facendo sfoggio della propria gioventù, Renzi si procurò una sequela spettacolosa di vittorie. Intitolò quell’impeto alla rottamazione, e se in politica il successo sia la misura della ragione (idea cui Machiavelli a volte cede e altre rilutta) ebbe ragione. Le tappe andarono dalle primarie vinte per il comune fiorentino a quelle perse per il centrosinistra, a quelle vinte per la segreteria del Pd, alla sostituzione di Enrico Letta al governo: la conquista del principato secondo Machiavelli. Il problema arriva qua, perché poche righe sopra la formidabile descrizione della sfida fra il giovane aspirante e la Fortuna come uno stupro, Machiavelli aveva avvertito sulla differenza decisiva fra la conquista del potere e il suo esercizio.
Niccolò Macchiavelli (1469-1527)
Lo stesso Principe che oggi trionfa, domani va in rovina, eppure non è cambiato in nulla. E’ la fortuna a cambiare capricciosamente: vinci quando il tuo carattere si addice alla qualità dei tempi, rovini quando la contrasta. L’uno può procedere prudentemente, l’altro impetuosamente; l’uno con la violenza, l’altro con l’astuzia; l’uno con la pazienza, l’altro al contrario; e l’uno o l’altro possono avere successo, secondo che la loro natura si conformi o no a quella dei tempi. E’ questo a rendere le vittorie pericolanti, perché “se a uno, che si governa con rispetto e pazienza, i tempi e le cose girano in modo che il governo suo sia buono, esso viene felicitando; ma se li tempi e le cose si mutano, egli rovina, perché non muta modo di procedere”. E (quasi?) mai si trova qualcuno così saggio da superare la rigidità della sua natura, e da mutarla al mutare dei tempi e delle cose. Gli esempi di Machiavelli erano drammaticamente grandiosi: azzardi di vita e di morte in cui gli Stati si fondavano o si spegnevano, secondo la tempra dei loro autori, e quel Principe che si affidasse tutto alla fortuna rovinava al variare di lei. In una stanca democrazia tutto è prosaico e molle, e il paragone di Enrico Letta con Oliverotto da Fermo (così ancora ieri un saggio antirenziano di MicroMega) è solo divertente – scesa la notte, il duca Valentino disse a Oliverotto incatenato: “Stai sereno…”. Sul Matteo Renzi eventualmente battuto al referendum incombe tutt’al più il fato fantozziano di “andarsene a casa”, a Rignano. Però fra l’impeto rottamatore e l’uso del potere raggiunto c’è una variazione dei tempi che dovrebbe indurre a cambiare registro, pena un accanimento che sembra infierire sugli sconfitti piuttosto che tirarseli a fianco, e che in breve tempo ti trasforma in bersaglio della rottamazione altrui. Non puoi trattare sprezzantemente Bersani o Fassina, e non puoi trattare i popoli, per esempio il cosiddetto mondo della scuola, come trattasti Bersani o Fassina, dandogli l’impressione di volergli passare addosso, perché poi quello, il mondo della scuola, che è diviso in una miriade di aspirazioni ragionevoli e resistenze di corpo, scende in piazza come una sola donna e poi vota Grillo.
Leggere Machiavelli fa un effetto distante, come se cedesse a semplificazioni psicologiche che alla nostra coltivata complicazione suonano ingenue per un verso e deterministe per un altro: noi ci immaginiamo molto più duttili, eclettici e indipendenti dalla nostra “natura”, molto più capaci di giocare tante parti diverse nel teatro della vita, e figurarsi della politica. Be’, i due anni di principato di Matteo Renzi dicono di no. All’indomani del primo turno di queste amministrative, quando già si disegnava l’esito, e Renzi pronunciò la parola “lanciafiamme”, a qualche milione di italiani cascarono le braccia. Voce dal sen fuggita, per di più senza riflettere sul fatto che è la metafora (finché rimane tale) prediletta dagli odiatori degli zingari, accostamento che Renzi è lontanissimo dal meritare. Ci sono parole che non si devono dire più: “Ruspa”, per esempio.
Ora, quali sono le “variazioni dei tempi e delle cose” cui Renzi non ha saputo adeguarsi? La prima riguarda il Pd (e il sindacato, anche), e la differenza fra rivali da battere e compagni e amici battuti da mettersi accanto. (Se no, diceva Machiavelli, “spegnerli del tutto”: la democrazia vi si oppone, e continuare a rottamarli a salve un giorno sì e uno no è solo irritante).
La seconda riguarda l’esercizio del potere: vi si è arrivati sulla scia di un’insofferenza popolare esasperata per le consorterie e le clientele, e niente può apparire più deludente che la tentazione ingorda e ombrosa di riempire il casellario pubblico con proprii sodali a scapito della qualità e della responsabilità personali, dell’apertura. Renzi non l’ha sentito? Da un punto in poi io, fiorentino di casa e fiorentinista d’animo, ho temuto che di questo passo finiranno per occorrere un paio di generazioni prima che gli italiani riascoltino volentieri la favella toscana. La terza riguarda la sobrietà. Renzi ha rivendicato ogni tanto di sentirsi di sinistra: buona idea, perché se dirsi che cosa sia sinistra oggi è complicato, raramente è stato così chiaro che cosa sia destra. Però ha tirato fuori questa formula del Partito della nazione, forse una velleità di riscossa per un popolo un po’ avvilito un po’ rancoroso, una versione più risorgimentista, diciamo, del Forza Italia. Le ha sacrificato, complice lo stato di necessità parlamentare, una larga parte della gente di sinistra, consegnata all’astensione infelice, alla dissipazione in partitini buffi, o alla risacca leghista e soprattutto dei 5 stelle. Si è comportato come chi pensasse che, in via d’estinzione il centrodestra berlusconista – che lo è davvero – bastasse agitare un’esca colorata e incassarne l’eredità.
Come se ci fossero solo lui e un vuoto. Solo che gli altri esistono, tanto più quando possono fare l’opposizione più demagogicamente efferata, e tu devi governare con le tasche bucate. Qualcosa del genere ha fatto Obama con la Siria: intervengo o no, la linea rossa o no, e intanto passavano gli anni e morivano a centinaia di migliaia, e un giorno è arrivato Putin, senza chiedere permesso, a bombardare, e un altro giorno ha tenuto un comizio video tra le colonne di Palmira “liberata” mentre la sua orchestra suonava Prokofiev. Non è successo di colpo, in Italia. Il 40 per cento alle elezioni europee, magnificamente contrastante con l’Europa incarognita, ha offuscato una quantità di avvertimenti, da Genova in poi. Convinto di dare il meglio nelle campagne elettorali (mi accorgo di fornire ingredienti al paragone tra Renzi e Berlusconi, dal quale tuttavia dissento per intero) ha insistito nel trasformare in sfide ultimative scadenze che avrebbero dovuto e potuto passare come normali incombenze istituzionali: l’ultima, e più sfortunata, il referendum cosiddetto No Triv – perché la Fortuna ti volta le spalle, se la provochi. La provochi, se in un referendum che non raggiungerà mai il quorum ti lasci andare a esortare all’astensione: e per giunta alla vigilia ti invalidano una ministra. Non parliamo del referendum costituzionale: “L’armi, qua l’armi, io solo, / combatterò, procomberò sol io”.
Nel fronte del no c’è una vasta ragionevolezza, e un malinteso che lo fa passare per la linea del Piave. Non bisognerebbe almeno separare la ragionevolezza dal malinteso? Il vero Partito della nazione è oggi ovviamente il Movimento 5 stelle. Può esserlo, non è al governo, è demagogico perfino ingenuamente – la demagogia ingenua è la più difficile da maneggiare – è informato a un autodidattismo saccente e fanatico, la caricatura dell’autodidattismo eroico che fece il riscatto delle classi popolari. Sta cambiando, del resto, com’è naturale, e passando da una selezione alla rovescia a una migliore, fra il casting e i meriti, e per esempio la signora di Torino autorizza qualche speranza. E il disastro su cui crescono i suoi plebisciti di minoranza, specialmente a Roma, rende dubbia, oltre che immorale, l’aspettativa di una rapida bancarotta. Quanto all’onestà gridata nelle piazze, certo che non è un programma politico: ma ne è la premessa inaggirabile.
Dunque? Sette Pater e due Bellaciao e ributtarsi a sinistra? Non esattamente. Ogni tanto mi faccio delle domande. Per esempio, sugli astenuti, o sui giovani. Mi chiedo se occorra essere un vecchio dignitoso impenitente signore come Jeremy Corbyn, o, assai più persuasivamente, come Bernie Sanders, per eccitare un buon numero di giovani e di astenuti, alla bellezza delle idee di giustizia e libertà, e di impegno condiviso. Una specie di reclutamento inverso a quello dei jihadisti, per così dire, qualcosa che dia un senso a questa sera, come vuole Vasco Rossi. Non dico di imitare Bernie e Corbyn: io per esempio sono del tutto insoddisfatto dalle loro interpretazioni del pacifismo. Ma se nel mondo c’è un vento che soffia forte dalla parte cattiva, ce n’è anche uno contrario: e da noi quello contrario fa ancora dei mulinelli caduchi, solleva polvere. Ma potrebbe prendersi.
Dissento dall’accostamento fra Renzi e Berlusconi. Va da sé che è una divergenza fra me e l’opinione prevalente qui al Foglio, che peraltro lo apprezza. Per quel che conosco di Renzi, da circostanze prepolitiche, non è fondato se non nel conto di incamerare una parte della rendita del berlusconismo morente. Conto effimero, e ora rovesciato nel suo opposto: il voto del centrodestra rifluito sui 5 stelle in odio a Renzi. Di quell’accostamento si nutre soprattutto l’antirenzismo, fase senile dell’antiberlusconismo.
Cinque anni fa scrissi in una piccola posta: “…però quando lo accusano di somigliare a Berlusconi mi ribello. Non ha niente che lo faccia assomigliare a Berlusconi, ed escogitare una simile cazzata rivela un allarmante bisogno di perpetuare, con successivi pseudo-Berlusconi, l’antiberlusconismo. Che il berlusconismo ecceda i confini del suo eroe eponimo è vero, ma non deve diventare l’alibi per non provare mai a essere qualcosa e non il contrario di qualcosa. L’Italia dovrebbe risparmiarsi almeno un futuro di antiberlusconismo senza Berlusconi”. Non ho bisogno di tornarci su. Oggi si usa già dichiarare che Renzi è molto peggiore di Berlusconi. Le unioni civili, c’è una legge, finalmente. Della legge elettorale diffido, come tanti, ben prima che apparisse un regalo ai 5 stelle. Che fine farà il Pd? Non so. Me lo sono chiesto qui a proposito dei Radicali e mi accorgo che, fatte le proporzioni, un po’ di argomenti sono comuni. Per esempio sull’Europa e i migranti e le guerre. Il cosiddetto Migration compact somiglia troppo all’accordo infame con la Turchia, nonostante le intenzioni.
Da anni ormai si poteva dire all’Europa che il groviglio di guerre del vicino oriente ha un effetto paragonabile a quello che ebbe in Europa la Seconda guerra. E che l’orizzonte che allora si seppe intravvedere e pazientemente perseguire per l’Europa, l’unione e l’aspirazione federale, può essere oggi l’orizzonte disegnato sui campi di sterminio del vicino oriente. Utopico, quanto erano utopici i manoscritti di Spinelli e Colorni e Rossi a Ventotene. E che solo formularne la possibilità sarebbe benefico per l’Europa spaventata e per il vicino oriente martoriato. Né Renzi, né alcun altro ha voluto figurare un contesto simile alla questione della migrazione, e prima ancora del soccorso a popoli falcidiati da violenze genocide e sadiche. Ma, dal punto di vista disincantato che mi anima, non vedo in Italia alcuna forza ufficiale capace di influenza ed efficacia governativa, che sui migranti dica e faccia cose migliori di quelle che dice e fa Matteo Renzi. Ne vedo che farebbero cose mostruose, e intanto le dicono. Le gridano.