Dal referendum inglese a quello italiano. I rischi del centrodestra che rincorre i populismi
La Grecia nel luglio 2015, con il referendum sull’austerity. La Gran Bretagna nel giugno 2016, con il referendum sulla Brexit. L’Italia nell’ottobre 2016, con il referendum sulla riforma costituzionale. Tre referendum diversi, tre temi differenti, tre storie non sovrapponibili ma alla fine un unico filo conduttore: il futuro dei grandi partiti di governo, l’abilità nell’assorbire le pulsioni populiste, la volontà di educare gli elettori senza doverli inseguire e la capacità di resistere, da Varoufakis a Le Pen passando per Salvini, Farage e Podemos, alle varie declinazioni degli istinti anti sistema. In Grecia, un anno fa, abbiamo assistito alla conversione improvvisa e sorprendente di Alexis Tsipras, che da leader anti tutto (a morte la Troika) si è trasformato in un leader più pragmatico, facendo deprimere il carrozzone politico europeo (destra e sinistra, c’era anche Brunetta) che aveva investito sentimentalmente sul leader di Syriza, individuandolo come possibile capo dei disubbidienti del continente.
Un anno dopo, lo stesso fronte che provò a spingere Tsipras sulla strada del Vday all’Europa oggi si ritrova più o meno compatto a sostegno dell’uscita della Gran Bretagna dall’Unione europea e ha scelto di sostituire allo sguardo un tempo sovversivo di Alexis la chioma ribelle di Boris Johnson (ex sindaco di Londra, conservatore, a favore della Brexit). Vedremo quali saranno i risultati definitivi del referendum ma ancora prima del voto di ieri il caso inglese è utile per mettere in luce un fenomeno che merita di essere approfondito e che riguarda l’identità più delle destre che delle sinistre europee. Il problema è semplice. Mentre le sinistre europee, dopo schiaffi su schiaffi, hanno capito che per recuperare consenso e risultare credibili hanno il dovere di far proprie alcune tematiche sposate e sponsorizzate dalla destra (Daniel Cohn-Bendit, grande rivoluzionario ecologista, ha scritto in Francia un saggio indirizzato alla sinistra intitolato “E se la finissimo di sparare cazzate?”) molte destre europee, per recuperare consenso e non farsi rosicchiare terreno dalle forze anti sistema, stanno viceversa cominciando a fare un ragionamento opposto, simile a quello offerto in Inghilterra da Johnson: per contenere i populismi bisogna inseguire i populisti sul loro stesso terreno. Tra queste destre europee, ahinoi, c’è anche quella italiana e da molti punti di vista la sua identità verrà messa in discussione al prossimo referendum costituzionale – che come ha scritto due giorni fa Bloomberg in un editoriale firmato dall’editorial Board (“Europe’s Other Historic Referendum”) potrebbe avere una portata storica simile a quella che ha oggi il referendum inglese. Su questo terreno il Cav. ha scelto di seguire il modello Johnson e pur di non dare soddisfazione a Renzi si è messo in scia a Salvini e a Grillo, rinnegando una precisa tradizione riformista del centrodestra berlusconiano.
La differenza sostanziale con l’Inghilterra è però evidente. In Gran Bretagna, la posizione del centrodestra alla Johnson è equilibrata dalla posizione dei Cameron (premier conservatore, contrario alla Brexit). In Italia, invece, la posizione del centrodestra alla Johnson non è equilibrata da nessun leader con propensione alle sfide di governo. Il modello salviniano, come hanno dimostrato le elezioni amministrative, resta un modello perdente ma misteriosamente è l’unico in campo nel nostro centrodestra. Se si vuole competere per non vincere, si può seguire questo modello. Se si vuole competere per governare, Brexit o non Brexit, al centrodestra serve invece con urgenza un suo Cameron che sappia riequilibrare il metodo Johnson. Un metodo che in Inghilterra può funzionare, forse, ma che alla lunga, in Italia, rischia di produrre un unico risultato: regalare il paese ai populisti.