(foto LaPresse)

Il pm, le corna e il finto furto. Storia del grande intrigo che scuote il Csm

Annalisa Chirico
Il giallo a Palazzo dei Marescialli sembra una pochade, ma in ballo ci sono gli equilibri della magistratura. Misteri.

Roma. Il Grande Intrigo del Csm. Come in un giallo di Raymond Chandler, si mescolano il presunto colpevole, il corpo del reato, l’amante e il poliziotto, in un’ondata di sospetti, pettegolezzi e veleni che infestano i corridoi di Palazzo dei Marescialli. Nelle mailing list dei magistrati non si parla d’altro (“chiediamo a Signorini come sono andate le cose”, suggerisce qualcuno), i giornalisti si consultano tra loro, nessuno sa come uscirne, siamo tutti in fibrillazione, dateci il fedifrago, qui e ora. Tuttavia la trama piccante di amori penalmente rilevanti s’infrange contro lo scoglio abruzzese, lui, Giovanni Legnini. Dopo giorni di tam tam ambiguo, di detti e non detti, di nomi sussurrati e frasi mozzate, il vicepresidente del Csm spedisce una lettera ai consiglieri. “Non risulta pendente alcun procedimento penale o disciplinare a carico di componenti del Consiglio in relazione ai fatti riportati nei citati articoli di stampa”, chiarisce la nota. Quali sarebbero codesti fatti? Lo scorso 24 giugno Frank Cimini, storico cronista giudiziario, innesca la miccia con un post sul sito Giustiziami.it: “Storia di corna, membro del Csm simula furto iPhone”. Il racconto ha dell’incredibile: un consigliere togato avrebbe indirizzato un messaggio via WhatsApp, “dal contenuto inequivocabile”, all’amante. La moglie non la prende bene, anzi s’infuria, pretende spiegazioni e il magistrato replica che l’apparecchio gli sarebbe stato rubato. Per dare consistenza all’autodifesa sporge denuncia sostenendo che il telefono, per giunta intestato al Csm, gli sarebbe stato sottratto da un ladro.

 

La polizia avvia le indagini e scopre che, colpo di scena, lo smartphone è sempre rimasto nelle disponibilità del consigliere. Preso atto del furto immaginario, i funzionari sono costretti a presentare un esposto alla procura di Roma per simulazione di reato con il risultato che, racconta Cimini, lo stesso si ritroverebbe sotto una duplice inchiesta, penale e disciplinare. Il racconto supera la più fervida fantasia. Dagospia lo rilancia, e la storia di corna, vere o presunte, infiamma le linee telefoniche di cronisti e magistrati. Tra togati e laici non si chiacchiera d’altro, il weekend precede la settimana “bianca” in cui i consiglieri non si riuniscono. E’ tutto un vortice di telefonate, il nome che circola è sempre lo stesso, ma nessuno capisce che cosa ci sia di vero e d’inventato, eppure qualcosa c’è. Il Tempo pubblica un pezzo garbato, senza far nomi; il Giornale non è da meno, e per l’occasione rispolvera il nom de plume Diana Alfieri, già “autrice” della patacca del caso Boffo. Il 28 giugno Legnini spedisce la nota chiarificatrice: “All’esito di verifiche effettuate, posso riferirvi che non risulta pendente alcun procedimento a carico di componenti del Consiglio”, inoltre “alla luce di tali rilievi non può nascondersi il disagio per le ricostruzioni adombrate dalle suddette testate giornalistiche le quali hanno finito con l’esporre il Consiglio e i suoi componenti a spiacevoli commenti privi di conferma in atti giudiziari”.

 


Giovanni Legnini, vicepresidente del Csm (foto LaPresse)


 

Dura quattro giorni l’attesa per una presa di posizione ufficiale, in quel lasso di tempo l’ombra del fedifrago si allunga minacciosa su ciascun componente maschio del Csm. “Per fortuna Legnini ha smentito – commenta il consigliere Pierantonio Zanettin al Foglio – Io sono fuori con la famiglia, mi chiamano decine di suoi colleghi ma io non so nulla di questa storia. Si figuri quanta voglia ho di disquisire di corna altrui”. Ma le corna in questa storia tengono banco. E’ possibile che la trama boccaccesca sia stata inventata di sana pianta? Cimini non ha la reputazione del pataccaro, la sua è la carriera di un uomo di trincea, per venticinque anni al Mattino, inviato al Palazzo di giustizia di Milano; nel 1992, quando i cronisti di tutta Italia scodinzolano dietro Antonio di Pietro, è tra i pochi a tenersi fuori dal coro. “La notizia – dichiara Cimini al Foglio – proviene da ambienti giudiziari, non è una patacca e si regge a dispetto della smentita burocratica di Legnini. La nota riferisce che non è pendente alcun procedimento, al tempo presente. La vicenda risale ad alcuni mesi fa, nulla esclude che il togato sia stato iscritto e poi archiviato, o che sia tuttora indagato riservatamente o che possa esserlo in futuro”. M’è dolce naufragar nell’incertezza. “Quella nota è un modo per tamponare e prendere tempo – prosegue Cimini – Che il magistrato abbia mandato per errore alla moglie il messaggio indirizzato all’amica del cuore è un fatto storicamente accaduto. La moglie ha deciso tuttavia di restare al suo fianco”.

 

Il rapporto di coppia è faccenda privata, il punto è se un togato del Csm abbia simulato un furto. “I contorni della vicenda giudiziaria si chiariranno solo tra qualche tempo. Il fatto che la smentita giunga al termine di quattro giorni in cui i magistrati d’Italia hanno sproloquiato di corna e telefoni rubati la dice lunga”. Il vicepresidente Legnini è maestro di prudenza, difficilmente si sarebbe esposto senza un’accurata valutazione dei rischi. “Se tra qualche mese venisse fuori che il tal magistrato era effettivamente sotto indagine, basterebbe spiegare che all’epoca della smentita l’indagine era secretata”, chiosa Cimini. Intanto i pettegolezzi si rincorrono, il nome che circola è sempre lo stesso ma nessun giornale lo riporta. Le notizie sono centellinate perché a bruciarsi le fonti s’impiega un attimo. Ieri la Stampa riporta la smentita del numero due del Csm condita, per la prima volta, dal nome che tutti sanno ma nessuno pronuncia. L’Innominabile si chiama Lucio Aschettino, è lui il protagonista, suo malgrado, del Grande Intrigo. E’ lui a sperimentare sulla propria pelle i guasti di un processo mediatico. Su Facebook, della serie “colleghi serpenti”, il giudice Clementina Forleo traccia l’identikit: “La commissione che presiede è quella che decide gli incarichi direttivi”, la quinta. Nelle mailing list togate c’è chi lo difende (“Quando si vuole eliminare un concorrente si prega un giornalista – termine improprio – e si dà origine alla notizia”) e c’è pure chi lo attacca (“Getta discredito su tutto il consiglio”, “è fonte d’imbarazzo per l’intera magistratura”).

 

Aschettino non è un quisque de populo. Già presidente della Sezione penale del Tribunale di Nola, presiede la quinta commissione del Csm, quella che presenta relazioni e proposte per il conferimento e la conferma degli incarichi direttivi e semidirettivi. Non c’è nomina che non passi da lui. Dopo una carriera di provincia alle prese con la criminalità mafiosa e in perenne sottorganico, Aschettino viene eletto al Csm, due anni or sono, insieme al compagno di corrente Piergiorgio Morosini, entrambi in quota Md, confluiti in Area (il cartello elettorale nato dalla fusione con il Movimento per la giustizia). Lo spiffero di un suo eventuale coinvolgimento in una vicenda dai contorni foschi desta non pochi malumori tra gli avversari interni. Non manca chi solleva una questione di opportunità: può un alto magistrato, con un ruolo di responsabilità e prestigio, restare saldamente dov’è? Chi sa far di conto evidenzia che, se Aschettino si dimettesse, subentrerebbe al suo posto Francesco D’Alessandro, Unicost, presidente di sezione della Corte d’appello di Catania, che alle ultime elezioni del Csm raccolse 454 suffragi (contro i 467 di Nicola Clivio, Area, ultimo degli eletti).

 

D’Alessandro, già presidente della sezione catanese dell’Anm, rappresenta la fazione interna di Unicost che osteggia il gruppo dirigente nazionale. Per questo il suo arrivo a Roma non sarebbe gradito all’area che fa riferimento al consigliere togato Luca Palamara. Inoltre, la fuoriuscita di Aschettino – ragione per cui qualche suo avversario interno potrebbe aver amplificato la portata del piccolo giallo – muterebbe gli equilibri interni alla componente togata del Csm dove attualmente la sinistra giudiziaria detiene la maggioranza. In seguito a un suo eventuale passo indietro i membri di Area passerebbero dagli attuali sette a sei e quelli di Unicost da cinque a sei, siglando un sostanziale pareggio tra le correnti. Com’è noto, i rapporti di forza contano. Che le nomine seguano una meccanica spartitoria e non un principio meritocratico è un fatto assodato. Al di là dei buoni propositi, il nuovo testo unico sulla dirigenza non ha neutralizzato il potere correntizio. La riprova si è avuta attorno alla nomina del procuratore capo di Milano: dopo essersi sapientemente astenuta in occasione della votazione in quinta commissione lo scorso 14 aprile, Unicost è divenuta l’ago della bilancia e in plenum ha votato per Greco soltanto dopo aver ottenuto la nomina di un proprio capocorrente, Giuseppe Amato, al vertice della procura di Bologna.

 

Scambio di toghe e favori, di ciò sembra consapevole pure il numero uno dell’Anm, Piercamillo Davigo, che recentemente ha definito “prassi orribile” quella delle “nomine a pacchetto: uno a me, uno a te, uno a lui”. La questione della spartizione correntizia emerge periodicamente, ogni volta che qualcuno rilascia dichiarazioni choc (vedi Raffaele Cantone) o scoppia il caso eclatante (nel 2012 l’allora consigliere del Csm Francesco Vigorito, Md, rese pubblica, per errore, una email indirizzata ai colleghi in cui lamentava “qualche pressione interna” che li aveva indotti a convergere sulla “giovane candidata napoletana di Area” ai danni del candidato concorrente). Adesso il “caso Aschettino” precipita su piazza dell’Indipendenza. Il magistrato, con una nota interna, ieri ha dichiarato: “non sono stato mai indagato né archiviato, dalla Autorità giudiziaria competente, per simulazione di reato o per ogni altra ipotesi delittuosa o contravvenzionale che anche la più fervida delle fantasie possa immaginare. Rilevo invece, che su di un mio esposto riguardante un accesso abusivo al mio cellulare, mirante a tutelare la funzione che svolgo, si è innestato un totale rovesciamento della realtà con l’effetto di rappresentarmi come l’accusato di un grave reato”. La storia andrà avanti. Per Legnini è l’ennesima matassa da sbrogliare. Per i cittadini, patacca o non patacca che sia, è l’ennesima riprova che qualcosa, nel sistema di autogoverno della magistratura, forse non va.

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