Serve uno sveglia-Renzi. La lezione di Kissinger per evitare la sindrome del governo Goria
Venerdì scorso, sulle pagine del Wall Street Journal, Henry A. Kissinger, ragionando sulle conseguenze del caso Brexit, ha ricordato che il metro di paragone di uno statista dovrebbe essere la sua capacità di trasformare una grande sconfitta in una magnifica opportunità. Il riferimento di Kissinger era legato alla clamorosa crisi di leadership maturata in poche ore in Gran Bretagna, dove nel giro di una settimana sono caduti o si sono gravemente indeboliti il primo ministro, David Cameron, il suo rivale in Parlamento, Jeremy Corbyn, il suo rivale nel partito, Boris Johnson. Ma la frase di Kissinger, volendo, potrebbe essere adottata anche per fotografare il contesto italiano, modificandola appena: il metro di paragone di uno statista dovrebbe essere la sua capacità di trasformare una sconfitta potenziale in una grande opportunità di rilancio.
Inutile girarci attorno: Matteo Renzi sta attraversando la fase politica più delicata della sua vita e il clima attorno a lui è oggettivamente cambiato. Lo si registra negli umori del partito, nelle chiacchiere di governo, nelle conversazioni con i suoi elettori, nelle rilevazioni dei sondaggi, nei risultati clamorosi di alcune città alle comunali. E, se è vero, come questo giornale sostiene, che la notizia della morte del renzismo è fortemente esagerata, è anche vero che sarebbe sbagliato non trasformare questa fase di difficoltà in una grande occasione per analizzare i problemi del renzismo. Proviamo a metterla così: ma se Renzi fosse ancora sindaco di Firenze e segretario del Pd e non ancora presidente del Consiglio cosa direbbe del presidente del Consiglio di oggi? Direbbe che Renzi deve sorprendere, deve stupire, non può permettersi di farsi inghiottire nel tramestio parlamentare, non deve trasformarsi in un mix tra Enrico Letta, Pier Luigi Bersani e Rosy Bindi (linea Ezio Mauro), deve ricordarsi che la sua esperienza ha un senso solo se è disposto a cambiare tutto, se è disposto a mostrare più il suo lato di governo che il suo lato bullo, se è disposto persino a perdere le elezioni pur di riformare il paese, se è disposto a seguire più il modello Draghi che il modello Grillo per conquistare elettori e se è disposto a non fermarsi per nessuna ragione al mondo. O si fa così o, dovrebbe dire il Matteo segretario al Renzi premier, si è fottuti. O si esercita, come scritto da Tony Blair sempre a proposito delle conseguenze della Brexit, una statesmanship e non solo una leadership o si rischia di non cambiare verso e di regalare la bandiera del cambiamento a qualcun altro.
Scriveva Renzi nel 2013 nella sua mozione con cui si è candidato alla segreteria del Pd: “Gli italiani vogliono cambiare, ma cambiare davvero. Hanno votato persino Beppe Grillo… All’Italia non bastano piccoli aggiustamenti, ma serve una rivoluzione radicale. Il Pd deve essere il partito della svolta, non quello che perpetua lo status quo, dove continuano a fare e disfare i soliti noti. Usciremo dalla crisi solo se metteremo finalmente mano alle riforme strutturali di cui tutti parlano da decenni e che invece stiamo ancora aspettando… Vogliamo consentire alle aziende straniere di poter investire in Italia, perché oggi la confusione normativa, burocratica, fiscale e i ritardi biblici della giustizia costituiscono il primo ostacolo a investimenti stranieri e quindi alla creazione di nuovi posti di lavoro… Superare l’austerity come religione e i conti come fine è il primo passo per costruire una Europa politica che sappia scegliere e non solo amministrare. Cambiare l’Europa è una sfida che possiamo vincere. Per farlo, però, abbiamo bisogno anzitutto di cambiare verso all’Italia. Solo cambiando, l’Italia può acquistare la forza e la credibilità necessarie per chiedere all’Europa di cambiare le sue regole e perfino i suoi paletti. A partire dal parametro del 3% nel rapporto deficit/pil; un parametro anacronistico. Siamo noi che dobbiamo chiedere all’Europa di cambiare, ma prima di farlo, iniziamo a realizzare in casa le riforme che rinviamo da troppo tempo…”.
Perfetto. La strada di Renzi forse sarà costellata di qualche compromesso, di qualche accordo imprevisto, di qualche modifica a qualche legge (elettorale), di qualche accordo con le varie forze politiche distanti oggi dalla maggioranza. Ma nel percorso di Renzi, in mezzo a molte incertezze (ieri il referendum bisognava stare attenti a non perderlo, oggi bisogna provare a vincerlo), c’è una certezza: rallentare il passo significa trasformarsi in un nuovo Enrico Letta, inseguire la sinistra significa trasformarsi in un nuovo Pier Luigi Bersani, cercare i voti dei grillini significa travestirsi da Rosy Bindi. Renzi non può permettersi di non correre: se non osa, non serve. In questo senso la strada per conquistare il referendum e cambiare l’Italia è semplice e lineare: se si copia il grillismo si regala il paese a Grillo; se si adotta il modello Jobs Act sul fisco, sulla giustizia, sulla burocrazia, si cambia il paese e si cancella il fungo a cinque stelle. La differenza tra essere uno statista e diventare un nuovo Goria in fondo passa tutta da qui: dalla capacità di trasformare una grande e potenziale sconfitta in una magnifica opportunità.
L'editoriale dell'elefantino