E se vincesse il No?
Roma. E se Renzi perde il referendum? Si vota. D’altronde lo ha detto anche il premier, durante la direzione del Pd, che non c’è trippa per gatti e se cade lui, casca il governo e si sciolgono le Camere. Andrà così? Forse. Prima domanda: chi scioglie il Parlamento? Risposta: il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, Sua Prudenza. Proviamo a vedere questa secondo canoni non-renziani, sotto il profilo della spietata lotta politica, delle istituzioni, dello scenario internazionale e della stabilità finanziaria. Prima occorre un passaggio su una parola pronunciata da Renzi in direzione, “legislatura”. Non è nata sotto il suo segno. Il Parlamento in carica, quello del 2013, precede la storia del segretario fiorentino.
A Palazzo Chigi l’avventura cominciò con un governo di larghe intese (poi ristrette) guidato da Enrico Letta. Renzi arriva dopo 300 giorni, il 22 febbraio del 2014, per defenestrazione di Enrico Letta, insediamento dello stesso Renzi e regia dell’allora presidente Giorgio Napolitano, che concesse al segretario del Pd di andare al governo senza passare per il voto. La storia di Renzi comincia con un non scioglimento delle Camere. Andiamo avanti. Una mattina di ottobre Renzi si sveglia e scopre che il No ha vinto. Che succede? Rassegna le sue dimissioni al Quirinale. Nel frattempo, la macchina della presidenza della Repubblica si è già messa in moto – lo è già, da molto tempo – e ha avviato colloqui informali per gestire la crisi. Il Quirinale procede secondo Costituzione, parte la giostra.
Le consultazioni. Mattarella per sciogliere le Camere deve sentire il parere dei presidenti di Camera e Senato, Laura Boldrini e Pietro Grasso che, en passant, sono due antirenziani (rieccolo, il Parlamento del 2013). Cosa diranno? Consiglieranno al Quirinale profonde esplorazioni. Vere e proprie trivellazioni del titanico giacimento della politica italiana. Liturgia: si parte con l’ascolto dei piccoli gruppi di cui neppure si sospettava l’esistenza e si arriva ai più grandi. Ecco l’elenco delle prossime consultazioni: gruppo Misto della Camera e del Senato, Südtiroler Volkspartei, minoranze linguistiche, Fratelli d’Italia, Ncd-Udc, Scelta civica, Centro democratico, Ala, Conservatori e riformisti, Gal, Per le autonomie, Sel, Lega nord, Movimento 5 stelle, Forza Italia, Partito democratico. Mandarli tutti a casa? Su ogni poltrona dei parlamentari c’è una pennellata di colla a presa rapida.
Entriamo nella scena viva post referendum. Mattarella ha davanti uno scenario di macerie. Il No al referendum ha fatto schizzare lo spread del Btp sui Bund a +300 punti, il pil per il 2017 è proiettato a -0,7 per cento, gli investimenti in rosso dell’1,6 per cento, il pil pro capite è dato a -589 euro, i poveri a +430 mila nel 2019, l’occupazione nel biennio 2017-2019 a -258 mila unità, il deficit del 2018 viaggia veloce verso il 4 per cento del pil, il debito schizzerà al 144 per cento del pil nel 2019. Sono le previsioni di Confindustria.
Le buone ragioni per votare Sì al referendum, sono robusti numeri per non consegnare il paese al primo che passa (Grillo) o all’instabilità. Mattarella chiama i suoi consiglieri, al suo fianco ha il segretario generale Ugo Zampetti, raccomanda al capo della comunicazione, Gianfranco Astori, di prendere nota riservata dell’incontro, compulsa le tabelle preparate dall’Ufficio affari finanziari guidato da Giuseppe Fotia. Di quanto è sotto la Borsa? Spread? Squilla il telefono: è la cancelliera Angela Merkel. Risquilla il telefono: è il presidente della Bce, Mario Draghi. Che fare?
Nel Pd nel frattempo è nata un’ala “governista” capeggiata da Dario Franceschini. In nome della stabilità occorre varare un “governo di scopo” che deve approvare la manovra economica, affrontare l’emergenza finanziaria del dopo Brexit, negoziare con la Commissione Ue il programma di aiuti alle banche, riscrivere l’Italicum e correggere il problema del Senato. La maggioranza renziana vacilla, Enrico Letta da Parigi ha esternato, Massimo D’Alema c’è, Pier Luigi Bersani è tornato a smacchiare giaguari, Berlusconi ribadisce quello che disse uscendo dall’ospedale il 5 luglio scorso: “La legge elettorale porta a un governo Cinque stelle”. Nell’area del centrodestra nascono come funghi gruppi di “responsabili”, pronti a sostenere un governo di “alto profilo”. I numeri sono risicati, ma ci sono. Chi sarà premier? Bisogna rassicurare i mercati, dal cilindro del Quirinale esce un nome: il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan. Sale al Quirinale. Accetta l’incarico. Fa il governo in un weekend. Giuramento. Flash. Dichiarazioni. Applausi. Avanti un altro.