Massimo Giannini (foto LaPresse)

Giannini: “Non faccio il martire”. Ma poi non vuole la concorrenza di Rambo

Massimo Giannini
Caro Giuliano, niente vittimismi ma il mio storytelling non piaceva a Renzi. Nei miei due anni alla conduzione del programma ho subito cannoneggiamenti vari. I più frequenti, devo dire, dal Pd. Replica dal fu “Ballarò”.

Al direttore - Caro Giuliano, sulla panchina dei rottamati si sta da Dio. Se puoi raccontare che a mandarti in pensione da un giornale o da uno studio televisivo non è stata la tua insipienza professionale, ma l’ennesimo editto (bulgaro o toscano) del potere protervo che tutto controlla e tutto censura, è una pacchia. Ma vedi, a me lo stigma del martirio (come scrivi, giustamente, “ordinario, regolare, per chiunque venga non dico crocifisso ma sostituito… nel ponte di comando di un vascello delle news”) non interessa. Io quella “bandiera” non la devo ammainare, seplicemente perché non l'ho mai issata. Nei miei due anni a “Ballarò” ho subito cannoneggiamenti vari. I più frequenti, devo dire, dal Pd. E in particolare dall’inner circle del tuo celebrato Royal Baby. Il premier, contro i “talk del martedì”, ha più volte salmodiato, avventurandosi in una appassionata “apologia di Rambo”. I “suoi” (come li definiscono i devoti retroscenisti dei giornali) hanno chiesto il mio licenziamento, hanno “sobillato” la Commissione di Vigilanza, hanno “armato” l’Agcom.

 

Quando mi è sembrato il caso, ho risposto alle cannonate. Dicendo il vero: cioè che, al di fuori delle categorie corrive del renzismo e dell'antirenzismo, il nostro compito era solo quello di raccontare quali erano (o quali ci sembrava che fossero) le reali condizioni del paese. Ribadendo l’ovvio: cioè che non spetta ai governi decidere i palinsesti delle trasmissioni televisive, nemmeno nel solito “teatro di guerra” del servizio pubblico televisivo. Ma mai e poi mai, per fare scudo ai cannoni, sono salito, fiammiferi alla mano, sulla pira santoriana. Non perché non stimi Santoro, che resta un venerato maestro. Ma semplicemente (e se me lo permetti, umilmente) perché la sua storia non è la mia. E perché sono convinto che la stagione berlusconiana (nonostante i tuoi eroici e compiaciuti sforzi di “ibridazione dei modelli”, e qualche specifica e per me inquietante analogia tra gli stessi) è stata diversa da quella renziana.

 

Dunque, caro Giuliano, nessun martiriologio. Per averne conferma basterebbe rivedere quello che chiami il mio “ultimo martedì di battaglia” (che mi dispiace ti sia sfuggito). Nel mio saluto finale non ho gridato “all’epurazione”. Non ho chiamato le “masse” alla rivolta. Come si dice: non ci sono gli estremi. E se anche ci fossero, le masse non si rivolterebbero mai, perché questo sì, possiamo e dobbiamo riconoscerlo: il conformismo accomodante che impera oggi non sarebbe mai stato immaginabile ai tempi del tuo amato Cav. Mi sono limitato a dire “alla fine anche noi siamo stati rottamati”. E’ un fatto oggettivo, no? “Ballarò” chiude dopo quattordici anni, e dopo i miei ultimi due di conduzione. Chiude perché non funziona più? Il “metro di misura apparentemente oggettivo” che citi (l’Auditel) non lo conferma, visto che lo scorso anno, tra i talk televisivi, “Ballarò” è arrivato primo assoluto per share e per numero di telespettatori, e quest’anno ha confermato il primato per numero di telespettatori, anche se ha ceduto lo scettro di share (per un infinitesimo 0,18 per cento) a “Quinta colonna”.

 

Chiude perché – ti cito nuovamente – “il mercato si libera degli arnesi che considera invecchiati”? Detto altrimenti, il format talk è usurato? Su questo ti do ragione al mille per mille. Tanto che io stesso, il primo giorno che ho incontrato i nuovi vertici Rai, ho detto subito che se si fosse deciso di continuare con “Ballarò” anche nelle prossime stagioni, a mio avviso sarebbe stato necessario cambiare profondamente la struttura e la durata del programma. La mia sollecitazione è stata raccolta, a quel che sembra. Cambia tutto. Compreso il conduttore, che per primo invoca il cambiamento. Legittimo. Ma allora, sia pure senza inutili spargimenti di vittimismo, è altrettanto legittimo tener conto del panorama che fa da sfondo al cambiamento. “Tu eccitavi l’insofferenza politica del capo del governo…”. Sei tu stesso a scriverlo. E io credo che questo sia vero. Ma non perché io in questi due anni sia stato “anti-renziano”. Ho solo cercato di raccontare, nel mio programma, le contraddizioni della politica (che sono sempre quelle del governo in carica, di qualunque colore sia) e le ragioni del disagio di tante categorie sociali (che forse non per caso hanno voltato le spalle al Pd alle ultime elezioni amministrative). Un’altra “narrazione”, non falsata né pretestuosa, rispetto allo storytelling rassicurante, e spesso auto-assolutorio, che il nostro premier predilige. Ma è proprio questo, credo, che genera “l’insofferenza politica” di cui parli tu. E’ l’idea che si contravvenga al compito che un tempo Ettore Bernabei aveva assegnato alla Rai: fare in modo che gli italiani vadano a letto più sereni.

 

Tu sostieni, in realtà, che a farmi pagare il conto sia stata la mia “tendenziosità” o, più nobilmente, la mia “passionalità politica”. Sulla seconda non obietto, perché non l’ho mai nascosta, nei miei 28 anni a Repubblica e nei miei due anni a “Ballarò”. (Sorvolo su quel che chiami il mio “noto dalemismo”, perché questo “ismo”, se mai c’è stato e del quale comunque non mi vergognerei, risale a un tempo ormai antichissimo nel quale eravamo in tanti, mi pare te compreso, a ritenere che Baffino di ferro avesse qualità di leader indiscutibili, sia pure obnubilate da un ego ipertrofico e contaminate da una visione troppo manovriera del potere, “diciamo”…). Sono di sinistra, sono un liberale, ma non mi rassegno all’idea che l’unica risposta alle complessità della fase sia l’assembramento grancoalizionista dove scompaiono appartenenze, culture, radici.

 

Sulla prima, invece, obietto eccome. La “tendenziosità” non mi appartiene. Rivendico il mio “impegno nella stagione militante del debenedittismo editoriale al suo apogeo”, perché in quella che ti ostini a liquidare come “l’infezione di stato del bunga bunga” ha prosperato un virus politico micidiale, che era doveroso combattere e che ha lasciato tuttora ferite profonde sul corpaccione amorfo della nostra democrazia (ma non voglio aprire qui questa discussione, che richiederebbe un Foglio a parte). Rivendico la gestione del “duello” tra Verdini e Travaglio, quando, come scrivi, “tentavo di fottere l’avversario renziano e promuovere l’amico anti-governativo”. Non è andata proprio così. Non si è trattato di “un agguato”. Ma mi sono “accorto di me stesso”, come mi inviti a fare. Ed è probabile che abbia lasciato trasparire una qualche “simpatia ribalda”, nel tentare di mettere in difficoltà Verdini. Ma converrai con me che quella “preda” (per storia politica e giudiziaria, e a prescindere da ogni “travaglismo”) si presta a qualche “zampata” più ribalda del solito?

 

Quanto ai grillini, anche qui ti hanno riferito male. E’ vero che non ho dedicato l'ultima puntata ai penosi casini dorotei della nascitura giunta Raggi, ma è altrettanto vero che non li ho affatto omessi. “Nel perimetro discutidor” di Mieli, di Travaglio e mio ho compreso eccome un “allarme” per quello che chiami “lo spettacolino politicamente osceno, bunga bunga, della giunta Raggi”. Il medesimo “spettacolino” è stato oggetto di una mia domanda specifica, sia a Travaglio che a Mieli, e tutti e tre abbiamo pacificamente convenuto che il movimento pentastellato, alla luce di questi e di altri fatti, non è ancora pronto a governare il paese. Perché anche questo, qui ed ora, ci tengo a ribadire. Non sono grillino. Né, figurati, mi sono mai sognato di cavalcare i grillini in funzione anti-renziana. Non mi piace che a decidere come si amministra una città, e in prospettiva come si guida una nazione, siano un brillante ex comico, una società di consulenza privata e un simpatico manipolo di attivisti del Web.
Ma non sono così cieco da non vedere che in questo triangolo qualcosa sta succedendo ed è successo, e che in questo triangolo un bel pezzo di paese si affaccia e si riflette, al di là della protesta e della gogna populista e anti-sistema. Ho provato a raccontare anche questo, in questi due anni di “Ballarò”. Senza “tendenziosità”. Ma evidentemente non mi sono spiegato bene.

 

Non pretendo di convincerti, caro Giuliano. Ma per la grande stima personale che ti porto e che ricambio, non ci sto a liquidare tutto con la categoria delle “piccolezze”. Non posso escludere di aver “sacrificato parecchio” alla mia “passionalità politica”. Ma se e quando l'ho fatto, non ho mai “truffato” chi mi guardava al di là dello schermo. Anch’io, come te, mi sono dichiarato, magari con un editoriale. Ho accettato il rischio, ho pagato il prezzo. Oggi ne prendo atto. Basta questo per considerarmi anch’io, come te e come tutti noi, un “battone della stampa e dello schermo”? Non ci voglio credere. Ho troppo rispetto per te, e per il giornalismo.

 

Un caro saluto

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