Un referendum per domarli
Portare il nostro sistema politico alla modernità costituzionale in numerosi suoi lineamenti”; una sfida centrale, tanto più valida se “i nostri ordinamenti sapremo collegarli, coordinarli, renderli consonanti con le realtà europee e mondiali”. Con queste parole, nel maggio 1999, nel suo discorso di insediamento come capo dello stato, Carlo Azeglio Ciampi chiamava il Parlamento e il paese tutto, a partire dalle nuove generazioni, a rafforzare il processo di cambiamento dei sistemi di governo, tanto in Italia quanto in Europa. Così come, in modo simile, lo stesso presidente Napolitano, nel discorso di insediamento del maggio 2006, ribadiva l’intima connessione della necessità di riforme in Italia e in Europa per favorire “l’affermazione di un nuovo ordine internazionale di pace e di giustizia”.
Da allora, nonostante alcune riforme chiave siano riuscite a farsi largo, abbiamo visto gli ultimi decenni dominati per lo più da un europeismo debole rispetto alle sfide del tempo; teso meccanicamente a badare più a un profilo economico ragionieristico che a incastonare quest’ultimo, invece, dentro grandi ragioni valoriali, capaci di dare un senso ulteriore e più chiaro alle scelte che si stavano compiendo. Quelle che, dai padri fondatori, passando per Spinelli, fino ai nostri giovani che si muovono con naturalezza in Europa, affermano e confermano la forza intrinseca di un’Europa unita. Una Europa dotata di politiche comuni all’altezza del tempo, politiche che si è tardato clamorosamente a costruire anche nella stagione del riformismo europeo tra anni Novanta e inizio di questo secolo.
Il referendum sulla Brexit, in tal senso, ha posto con chiarezza britannica il tema nei suoi due aspetti: quello di società europee – non solo della “vecchia” Europa, non ci si illuda – colpite da paure, egoismi e chiusure, per lo più introflesse nelle loro divisioni, spesso accecate da un semplicismo analitico, figlio di un’accettazione passiva e inconsapevole di ciò che accade loro intorno; e quello di una miopia delle e nelle élite dirigenti nel cogliere, con vera responsabilità, lo spirito del tempo.
Forse non poteva essere diversamente, tenuto conto dell’interazione tra tempo e velocità che oggi viviamo. E tuttavia non si può non vedere che proprio la globalizzazione in sé come processo, per funzionare a dovere, facendo crescere i suoi benefici, abbisogna innanzitutto di classi dirigenti consapevoli che mettano in opera strumenti nazionali e internazionali all’altezza. Altrimenti le possibilità che la globalizzazione offre finiranno da un lato a ridursi a poco; mentre dall’altro, finiranno invece per far aumentare molto fenomeni di polarizzazione sociale ed economica già piuttosto chiari.
Che fare, dunque? Innanzitutto, prendere atto di ciò, rapidamente. E dunque reagire, con intensità e senza ipocrisie, superando decenni di occasioni fallite e di speranze deluse, tanto in Europa quanto in Italia: anni fatti di un tempo caratterizzato spesso più da interessi di corto respiro che da scelte consapevoli e lungimiranti per rendere le nostre comunità migliori. E poi, senza falsi e queruli timori, dotarsi di istituzioni più forti, in Europa e in Italia; istituzioni capaci di essere pilastri di autorevolezza. Luoghi dove trovare il senso dello stare insieme e del libero confronto, oltre la mera fotografica rappresentazione elettorale delle nostre divisioni sociali e politico-culturali, divisioni spesso artificialmente portate agli estremi in un groviglio di esasperazione, improvvisazione e drammatizzazione; luoghi dove trovare stabilità e governabilità politica per dare una risposta concreta ai problemi che il tempo del Nuovo millennio pone, oltre che la voce sola delle nostre ansie e paure. Senza paura di decidere e delle responsabilità che, dunque, ne conseguono.
Per questo serve accelerare su politiche che inneschino riforme, anche istituzionali, in Europa e in Italia. Cogliendo l’occasione storica, come paese, di superare l’accumulo di problemi lasciati irrisolti negli anni, indirizzando le nostre società nel cambiamento che questo tempo impone, dotandoci di nuovi strumenti politico-istituzionali – sempre naturalmente perfettibili – non da ultimo nella consapevolezza che le nostre comunità sono sempre più molecolarizzate e individualistiche, attraversate, divise e corrose innanzitutto dalle due pesanti crisi economiche di questi ultimi dieci anni. Allora, non si possono sprecare le occasioni per paura di cambiare. Né per mantenere piccole rendite di posizione personale, né per difendere micro-interessi. Quando va in crisi la fiducia e la speranza nelle società, la storia del mondo insegna con chiarezza che è necessario ripartire dall’essenziale, che nel nostro caso è innanzitutto quello di ri-costituire le condizioni istituzionali per agganciare meglio lo sviluppo economico, approvando positivamente il referendum sulle riforme del prossimo autunno.
Un referendum per cambiare, un referendum per decidere che, a maggior ragione in casi del genere, si impone la necessità di approfondire il merito della scelta da fare, cercando le interconnessioni e i vantaggi delle proposte di cambiamento, non cedendo all’impulso del semplicismo che, inevitabilmente, il richiamo referendario prevede. L’esperienza della Brexit sta lì a dimostrare come di semplificazione e di propaganda bugiarda anche sui costi si muore. E la prova migliore ne è il fatto che, come è stato detto, l’ammontare totale del costo economico-finanziario pagato il primo giorno successivo al voto è stato maggiore di quanto è stata addirittura la contribuzione del Regno Unito all’Unione europea in quarant’anni. Dunque, che si mettano da parte gli eccessi semplificatori, le scorciatoie intraprese in modo energico, perché davvero forse siamo, come ha sottolineato da tempo Tony Judt, in un “mondo guasto”, fatto di populismo e antipolitica. E allora c’è bisogno di spiegare, di far capire, di presentare le ragioni del cambiamento per l’oggettività che esse rappresentano. Senza cedere a quel modo caricaturale di illustrare le scelte che, sempre più, domina il dibattito pubblico.
La realtà e le soluzioni adeguate a essa hanno una forza intrinseca potente, tutta da sfruttare. Il tempo davanti a noi è quello di un confronto sulla Costituzione: un confronto alto e, allo stesso tempo, molto puntuale e concreto. Un confronto sul merito, che riscoprendo la nostra Costituzione e i suoi valori, adegui le sue istituzioni al tempo di oggi. Vorremmo dire che siamo chiamati, insomma, a una scelta civile, prima che politica. Una grande opportunità di educazione civica, da realizzare tutti insieme, per rafforzare le ragioni che ci uniscono.
D’altronde, l’instabilità che il mondo ci mostra, rivela anche quanta forza potente può sprigionare un paese che, al contrario, si ritrova – tutto insieme – nel cambiamento delle sue istituzioni, rafforzando al tempo stesso i valori della sua Costituzione.
Perciò non si perda l’occasione, tramite un voto positivo al referendum che ci aspetta, per dimostrare a noi stessi e a un’Europa sempre più in preda all’ingovernabilità, come nuovamente le elezioni spagnole hanno dimostrato, che non basta dire no; e che è possibile trovare una strada civile, democratica e di popolo perché il nostro destino collettivo non sia quello di tornare a periodi oscuri della storia dalla quale questi decenni ci avevano allontanato con forza. In Italia, come in Europa, va favorita e promossa una cultura del cambiamento che rifiuti, innanzitutto, l’egemonia culturale di un inevitabile declino. La bussola l’abbiamo, l’occasione storica altrettanto. Basta dare una chiara e convincente risposta alle domande inevase di riforme e di cambiamento, imponendoci tutti, a partire innanzitutto dalle classi dirigenti, di interpretare questo momento con una responsabilità consapevole dell’altezza dei problemi e del compito che il mondo “nuovo” pone.