La crisi della politica non si cura giocando con l'eurocalendario elettorale
Al direttore - L’Europa è un inestricabile intreccio di cicli elettorali – presidenziali, amministrativi, politici – e consultazioni referendarie che porta al sovraccarico di tensioni che a loro volta si scaricano in verdetti sempre più esasperati e nella volata tirata al “voto contro” e al populismo. E’ questa la diagnosi a cui giunge Giulio Napolitano sul Foglio dopo aver appoggiato lo stetoscopio sul ventre crepitante dell’Unione europea. La ricetta che Napolitano propone come rimedio, una sincronizzazione dei cicli elettorali e più in dettaglio un “election day” per legare assieme sia le elezioni politiche nazionali sia quelle per il Parlamento europeo, pone un tema rilevante. In prima battuta, è vero che esiste su più livelli una sostanziale asimmetria tra i cicli politici – sempre più brevi – e la durata delle legislature.
Chi propone un accorciamento delle legislature per chiudere questa “forbice” si sente in genere rispondere che legislature brevi non offrono un orizzonte temporale sufficientemente ampio per attuare riforme strutturali. Sarà, ma il mantenimento in vita di governi decotti o l’assemblaggio di esecutivi supportati da maggioranze ricombinate è uno dei principali fattori dietro al disamoramento degli italiani rispetto ai partiti tradizionali e alla politica. Questo fa sì che nel Paese si sia formata una pericolosa maggioranza silenziosa, che comprende il crescente blocco di non votanti e formazioni dichiaratamente anti-sistemiche. Un dato allarmante, specie se letto in filigrana con fenomeni di portata storica come quelli che stiamo vedendo da qualche tempo a questa parte: migrazioni di massa, conflitti a pochi chilometri dai nostri confini, depressione economica e disoccupazione dilagante.
In seconda battuta, il ragionamento di Napolitano è in parte imperniato su una visione legalistica della politica. I mercati, principali committenti degli analisti di rischio politico, hanno invece maturato il convincimento che non sia sufficiente alterare architetture costituzionali o meccaniche elettorali per ripristinare ordine ed efficienza. Si prenda il caso della riforma del Titolo V della Costituzione, che è elemento principale del prossimo referendum costituzionale. Esso investe uno sfasamento, quello tra il centro la periferia, diverso da quello affrontato da Napolitano cioè quello tra Roma e Strasburgo. Per molti mesi, investitori con interessi nelle infrastrutture, nei trasporti e nell’energia, hanno covato la speranza, all’indomani della centralizzazione dei poteri in tali ambiti, di disporre di un interlocutore unico a Roma: un one-stop-shop, come lo chiamano, anziché una miriade di soggetti con cui dialogare e non di rado litigare.
Le comunità locali vivono invece la riforma come un tentativo di disintermediarle, e brandiscono gli altri strumenti a loro disposizione – salute, ambiente – per rimanere in partita. I mercati, già preoccupati dalla prospettiva di una transizione lenta dall’attuale regime misto a un regime centralizzato di poteri, hanno quindi capito che solo un rapporto meno conflittuale tra Roma e la dimensione locale può riavviare gli investimenti infrastrutturali. Ciò presuppone una componente antropologica più marcata, con un presidio della cerniera con gli enti locali affidato a mani esperte, e non solo interventi sull’architettura. Se dunque di riforme si vuole ragionare, non è certo squadernando calendari elettorali che si raddrizza la crisi della politica. Molto più sensato, rimanendo in ambito elettorale, è invece riconnettere i parlamentari con i propri collegi, evitando il fenomeno di “alieni” spesso impreparati e del tutto slegati dalla propria constituency.