L'assoluzione di Maurizio Venafro e il rischio “fine gogna mai”
Roma. A Maurizio Venafro, ex capo di Gabinetto del presidente della Regione Lazio Nicola Zingaretti, è arrivata due giorni fa la notizia attesa: assolto dai giudici della seconda sezione penale (in primo grado) “per non aver commesso il fatto” nel processo sulla turbativa d’asta per la gara Recup (centralino unico prenotazioni), “stralcio” da Mafia Capitale ma anche passaggio fondamentale dell’inchiesta. E ieri Venafro, a suo tempo dimessosi dall’incarico, diceva di aver “sempre sperato” in un esito simile. “Ha combattuto nel processo, non ha mai concesso nulla alla polemica. Abbiamo avuto fiducia nella magistratura, meno nel mix tra una certa cattiva stampa e molta cattiva politica”, è stato il commento di Zingaretti. E però la soluzione parziale della vicenda lascia aperto un problema: quello della gogna preventiva a cui Venafro – indagato, processato e in teoria innocente fino a prova contraria – è stato sottoposto (a volte da solo, a volte con lo stesso Zingaretti), fino a poco tempo fa.
Nel marzo del 2015, infatti, Venafro si dimetteva con una lettera in cui auspicava (invano) la non-mediatizzazione e demonizzazione a monte: “Devo necessariamente prendere atto che la normale tempistica d’indagine impone ai magistrati inquirenti di svolgere, con la necessaria attenzione, tutti i dovuti e complessi accertamenti; ciò è però (purtroppo) incompatibile con i tempi della politica, dell’informazione e, infine ma non per ultimo, con quelli della mia personale dignità. Non intendo essere sottoposto a uno stillicidio politico-mediatico”. Cosa che invece sarebbe accaduta di lì a poco. Tra marzo e aprile, intanto, i consiglieri regionali e comunali di M5s chiedevano ripetutamente le dimissioni di Nicola Zingaretti, annunciando la preparazione di una mozione di sfiducia (“la notizia delle dimissioni di Venafro non è un fulmine a ciel sereno, è un fatto grave”). E dalla destra-destra Francesco Storace definiva “truccata” la trasparenza di Zingaretti e si lanciava in una sorta di “profezia”: “I molteplici rumori di fondo sono arrivati ai pronostici sulla data delle dimissioni di Zingaretti. La data più gettonata è quella dell’8 aprile: i bombardamenti giudiziari su Mafia Capitale punterebbero a un’équipe a lui non distante”.
Durante l’estate, le richieste di “fare come la Polverini” (dimettersi) arrivavano a Zingaretti, per via del caso Venafro, anche da Antonello Aurigemma, capogruppo di Forza Italia alla Regione Lazio. Nel 2016 una nuova ondata: il 15 febbraio il senatore di M5s Mario Giarrusso chiedeva l’audizione di Zingaretti in Antimafia; il 21 aprile il Fatto pubblicava una prima pagina così titolata: “Renzi attacca i pm: il Pd ha 124 indagati e imputati” (tra cui figuravano anche i poi assolti Venafro e Vasco Errani); in giugno Storace definiva Zingaretti “personaggio poco incline alle verità giurate” facendo balenare il sospetto (della serie: “non poteva non sapere”): “E’ normale che il capo di gabinetto di un governatore treschi con chi ogni giorno lo deve controllare e non dica una parola al proprio datore di lavoro?”. L’11 luglio scorso, poi, il Cinque stelle Davide Barillari raccontava la sua “notte di lavoro” su Mafia Regionale: “Ricostruire il sistema di potere/relazioni ti permette di capire come funziona il ‘Sistema corruttivo della Regione Lazio’. Fino ad arrivare su, al suo massimo vertice. O imbrigliato o burattinaio.”. Se si guarda oggi alla sentenza Venafro, né l’uno né l’altro. Ma il punto è: quanto viene “guardata” una sentenza di assoluzione, a livello mediatico, rispetto alla sola notizia dell’iscrizione nel registro degli indagati, per non dire della semplice intercettazione?