Parisi ci spiega che centrodestra ha in mente
Supplì, carciofo e tagliolini ai gamberi, grazie. Sono le tredici e trenta, siamo a Roma, quartiere Trastevere, in uno storico ristorante romano, e Stefano Parisi, mentre ad Arcore sono riuniti a casa di Silvio Berlusconi i vertici di Forza Italia per discutere il futuro del principale partito del centrodestra, è qui con il Foglio. A fare ordine, a mettere insieme le sue idee e a immaginare come potrà essere nelle prossime settimane e nelle prossime ore il percorso che lo porterà a organizzare a metà settembre a Milano una convention importante non per rottamare il centrodestra – “odio quella parola!” – ma semplicemente, dice Parisi, per provare a rigenerarlo. Parisi ha passato i primi due giorni dalla sua discesa in campo – “non è una discesa in campo!” – a ripetere a tutti i suoi interlocutori, in pubblico e in privato, tra telefonate, mail, messaggini e molti WhatsApp, che non bisogna aver fretta, che non bisogna essere arroganti, che bisogna muoversi senza strafare e che non c’è nulla da temere: “Non mi candido a niente, voglio solo dare una mano, voglio solo inondare il centrodestra di idee, non di personalismi, e lo voglio fare creando una nuova piattaforma, studiando un nuovo equilibrio politico, immaginando un modo moderno di costruire un rapporto con i cittadini, e andando oltre il centrodestra contendendo elettori al Movimento 5 stelle”.
I punti forti del suo programma Stefano Parisi li ha messi insieme prima in un’intervista alla Stampa, due giorni fa, e poi in un documento di poche cartelle inviato ad Arcore la scorsa settimana particolarmente gradito a Silvio Berlusconi. E il succo del software parisiano è semplice e si ispira al modello Milano, “dove il centrodestra non ha vinto ma ha mostrato di essere competitivo, forte, unito, senza essere demagogico e soprattutto partendo quasi da zero”.
L’idea è questa: immaginare un centrodestra moderno che possa competere con il centrosinistra renziano utilizzando un linguaggio non consolatorio e non politicamente corretto e partendo da alcune basi solide da declinare con urgenza per riconquistare gli elettori delusi dai fallimenti del centrodestra di governo e rosicchiare così consensi a Renzi “senza dover inseguire i fantasmi del grillismo e del lepenismo e senza utilizzare nei confronti del presidente del Consiglio la stessa tecnica demonizzatrice utilizzata per anni dal centrosinistra contro il centrodestra berlusconiano”. Molte parole d’ordine di Stefano Parisi sono simili a quelle che Renzi ha declinato negli ultimi tempi – “e ti credo – dice Parisi – Renzi ha copiato Berlusconi…” – ma il punto centrale del messaggio del manager romano (classe 1956) è proprio questo: riconoscere che alcune idee di Renzi erano buone ma far capire che quelle idee il premier non può e non potrà realizzarle perché non ha un partito (o se volete, un software) che gli possa permettere di fare quello che sarebbe giusto fare per il paese. E le sue idee, prima di ricevere ieri una iniziale e simbolica benedizione ufficiale dal Cav., Parisi le ha sintetizzate così al capo di Forza Italia qualche giorno fa.
Sintesi schematica: una politica estera apertamente atlantista, che non lasci spazio a indecisioni sul ruolo degli Usa o di Israele nel garantire libertà e democrazia nel mondo; una difesa inflessibile delle libertà economiche, che si opponga con decisione a statalismi vecchi e nuovi; una pubblica amministrazione più semplice e digitale che faccia del pubblico-privato il modello organizzativo per eccellenza dei servizi pubblici; una riforma dello Stato che semplifichi il processo legislativo, garantendo governabilità e stabilità delle maggioranze; una giustizia più rapida, equa e responsabile, che smetta di occuparsi di politica e torni ad avere anch’essa pesi e contrappesi dai restanti poteri dello Stato; un welfare efficiente, trasparente e orientato davvero alla tutela dei più deboli, e non al mantenimento di rendite di posizione e privilegi; un rapporto con le banche che tuteli i cittadini, imponendo responsabilità chiare ai banchieri; un profondo ridisegno dell’Europa meno ideologica e meno burocratica di fronte alla quale non ci si può presentare invocando solo una maggiore flessibilità; un sistema educativo che tuteli e valorizzi la libertà di scelta e la pariteticità di offerta tra pubblico e privato; un approccio pragmatico al tema dell’immigrazione, che offra soluzioni alle paure delle persone, senza demonizzarle, e che metta al centro di tutto la pretesa della legalità in cambio di diritti; un cambio di paradigma nella gestione della cultura, che deleghi la sua gestione e valorizzazione ai privati senza pregiudizi. E nelle idee di Parisi trasferite qualche giorno fa a Berlusconi, ma di cui oggi il manager preferisce non parlare, il modello per Forza Italia è più o meno questo: “Forza Italia dovrà cambiare nome, statuto e regole interne, ma soprattutto dovrà assumere un nuovo modello organizzativo, basato sul modello del ’94: un modello Forza Italia, che scoraggi lotte di potere intestine e correnti, ma che invece premi e selezioni la leadership sulla base di chi porta voti e crea consenso intorno al partito”.
Parisi, ci scusi, ma sta dicendo che, come direbbe De Magistris, la vecchia classe dirigente di Forza Italia si deve caca’ sotto? “Non scherziamo. In questi anni se abbiamo imparato una cosa è che il rinnovamento è una parola vuota e sterile se non viene accompagnata da idee e organizzazione. Io faccio un discorso diverso e parto dai numeri e in particolare parto dal 2013. Pur venendo da un percorso di sinistra, si sa, sono da tempo un elettore di centrodestra convinto e in particolare un elettore di Berlusconi. Ma come molti liberali nel 2013 ero deluso e rammaricato e non ho votato per nessun partito. La sfida del centrodestra futuro, mi piacerebbe metterla così, è quella di riconquistare la maggioranza silenziosa del paese, quella che ha votato nel 2001 e nel 2008 il Popolo della libertà: che non è una maggioranza moderata, perché i moderati non esistono, ma è una maggioranza di elettori che si considera liberale e che oggi fatica a identificarsi in qualche partito. La mia idea è questa: creare le condizioni affinché il centrodestra del futuro torni a essere la casa non degli elettori di centro o di destra ma di tutti coloro, anche di sinistra, che vogliono riformare e cambiare questo paese senza dover fare ogni giorno i conti con i vecchi e irriformabili tabù che tengono in ostaggio il partito di chi sta governando questo paese”.
Praticamente ci sta dicendo che lei è più renziano di Renzi. “Sto dicendo una cosa diversa. Sto dicendo che il centrodestra ha un bisogno urgente di tracciare un nuovo perimetro e lo dico non solo per non regalare le prossime elezioni al Pd o al Movimento 5 stelle ma lo dico anche in vista del prossimo referendum. Non dobbiamo dare a Renzi la possibilità di giocare la partita di chi si presenta di fronte agli elettori dicendo ‘votate la riforma costituzionale, altrimenti dopo di me ci sarà il diluvio’. Dobbiamo proiettarci verso una dimensione diversa in cui il no al referendum è propedeutico a evitare un disastro e aprire una nuova fase in cui sarà finalmente possibile riformare l’Italia non con forzature pasticciate ma con idee forti per riproporre già in questa legislatura il giusto spirito costituente per cambiare il paese”.
Scusi Parisi, ma il no al referendum ce lo deve spiegare. “Questa riforma non funziona sia per questioni di metodo – non si mette un paese sotto ricatto dicendo o votate sì al referendum o l’Italia finirà in malora – sia per questioni di merito. Il merito è importante: c’è una grande confusione di ruoli tra il Senato e la Camera; c’è un Senato che andrebbe abolito e che invece rimane lì con funzioni importanti come la ratifica di accordi internazionali; c’è un federalismo che viene cancellato e che impedirà ai comuni di poter avere autonomia fiscale e che non darà la possibilità alle amministrazioni virtuose di poter abbassare le tasse. Guardi, potrei andare avanti per ore”. Immaginiamo che Parisi avrà un’alternativa. “Ce l’ho. Votiamo no al referendum e dopo il referendum niente elezioni ma un programma chiaro per fare due cose semplici”. Cosa? “Cambiamo subito la legge elettorale. Sbarazziamoci di un sistema maggioritario che droga la rappresentanza e che porta a regalare la maggioranza degli eletti a un partito che rappresenta ormai costantemente la minoranza del paese. Costruiamo una legge elettorale con una base proporzionale. Diamo più poteri al premier introducendo la sfiducia costruttiva. Valutiamo finalmente l’elezione diretta del presidente della Repubblica. Aboliamo subito il Senato e trasformiamolo in una Camera costituente in modo tale che nella prossima legislatura saranno gli elettori a scegliere chi dovrà cambiare la Costituzione – che ovviamente non è la più bella del mondo. Dopo il no al referendum c’è questo. Non c’è il diluvio. Ci siamo noi, non c’è Di Maio”.
Ci sta dicendo che secondo lei il grillismo è un fenomeno transitorio e che basta un centrodestra competitivo per renderlo ininfluente come è successo a Milano? “Credo che il grillismo sia un fenomeno semplice da capire: misura la capacità di approfittare della crisi dei due schieramenti. Diventa transitorio se lo si contrasta cambiando il paese. Diventa permanente se lo si rincorre e se si replica in salse diverse la retorica del Cinque stelle”. Parla della felpa di Salvini? “No, parlo della svolta di Renzi. Renzi non funziona perché ha sostituito il grillismo al berlusconismo. Guardi sulla giustizia. Guardi sulla Pubblica amministrazione. Guardi soprattutto sulla scuola”. La scuola? “La riforma della scuola è stata un mix perfetto di grillismo e post comunismo. Sulla giustizia mi pare evidente: molte buone parole, zero fatti. Sulla Pubblica amministrazione, anche qui, mi sembra chiaro: chiedete a un qualsiasi investitore straniero se dopo due anni di governo Renzi si fida più o meno della nostra amministrazione pubblica. Sulla scuola, infine, il pasticcio mi sembra ancora più clamoroso: la Buona scuola doveva essere una riforma incentrata sul merito ed è diventata invece una riforma incentrata sulle esigenze dei professori, dove l’unica nota di merito sbandierata dal governo è stata quella non di aver fatto l’interesse delle famiglie o degli studenti ma di aver prima di tutto stabilizzato i precari”.
Parisi si ferma un istante, ordina un caffè, risponde a qualche messaggio e quando glielo chiedono si diverte a ricordare ai giornalisti che lo chiamano al telefono per mettere insieme qualche dettaglio della sua vita che lui ama la politica, sì, la fa da sempre, la fa dagli anni Settanta, da liceale a Roma tra i corridoi del Righi, ai tempi in cui iniziò ad avvicinarsi, in chiave anti comunista, ai movimenti socialisti, ma che la sua storia è complessa. Non è solo politica, non è solo imprenditoria. Parisi si iscrisse al Psi e ci rimase fino al 1980, fino agli anni degli incroci tra Craxi e Rumor. Poi entrò nella politica in un altro ruolo, da tecnico, diventando nel 1982 capo della segreteria tecnica del ministero del Lavoro, lavorando alla vicepresidenza del Consiglio nel 1988 durante il governo De Mita, passando poi sempre dagli uffici della Farnesina, al dipartimento per gli Affari economici della presidenza del Consiglio (1992), al collegio sindacale della Rai (1994), al comune di Milano (city manager nel 1997) per poi diventare direttore generale di Confindustria nel 2000 (con Antonio D’Amato) e in seguito direttore generale e amministratore delegato di Fastweb e numero uno, dal 2012, di Chili Tv. Un imprenditore di successo con la passione per la politica. Dove lo abbiamo già sentito? “Non scherziamo”. E chi scherza. “Sono solo idee”. E perché farlo in questo momento? Perché parlare oggi? “Perché bisogna muoversi. L’ho fatto perché è arrivato il momento di mettere le cose in chiaro e di dire che c’è un pezzo di Italia che vuole essere rappresentato ma che non trova nessuno che sia pienamente credibile quando si parla di sviluppo, di tasse, di spesa pubblica, di mercato libero, di Europa. L’ho fatto perché dobbiamo avere il coraggio di dire che il pensiero unico ha fallito, sta fallendo, e questo coraggio devono averlo anche le élite, che hanno sbagliato tutto e continuano a nascondersi dietro una maschera chiamando populismo tutto quello che esce dalla volontà popolare. L’ho fatto perché sono un imprenditore e so che l’Italia non mette in condizione gli imprenditori di lavorare come dovrebbero e come potrebbero, se non si abbassano le tasse senza aumentare la spesa, se non si combatte la burocrazia, se non si gettano ponti d’oro verso chi vuole investire nel nostro paese, l’Italia resta un po’ così: un grande paese con il fiato corto, con molte potenzialità e molta voglia di fare ma con il motore che continua a girare non sfruttando tutti i suoi cavalli. L’ho fatto per questo. Ho messo in circolo un po’ di idee per questo. Non per parlare di leader, ma per parlare di idee e provare a liberare le energie dell’Italia. Quando cominciamo?”.
La prossima Commissione