Se Urbano è il rottamatore, Renzi ha un problema
Al direttore - A tre giorni dalla vittoria di Urbano Cairo sul fronte di Rcs vale la pena di aggiungere qualcosa al molto che è stato detto. Il mercato ha preferito l’editore, che ha sempre pagato dividendi e ora si gioca tutto sulla ruota del Corriere della Sera, a una Mediobanca, che ha avuto la responsabilità di subire gestioni in perdita per 1,3 miliardi negli ultimi 10 anni. Promettere stabilità e l’ennesimo business plan senza editore non ha convinto. Era scritto. Nonostante alla concorrente Repubblica Cairo piacesse poco, forse perché aveva soffiato La 7 a De Benedetti, e al governo ancor meno. Il Foglio ha definito Cairo il vero rottamatore. Giusto. Ma se il rinnovamento nell’informazione passa dal self made man che si emancipò da Berlusconi senza cercarsi altri padrini, che cosa si dovrebbe dire del Rottamatore par excellence che, adesso, va alle cene milanesi del finanziere Francesco Micheli e appena ieri, neppure tanto segretamente, tifava per Mediobanca al Corriere: per quella Mediobanca che non voleva nemmeno sentir nominare da Vincent Bolloré quando costui, nuovo azionista di riferimento di Telecom Italia, gli rese visita a palazzo Chigi?
Evidentemente, alla politica – anche a quella sedicente nuova – risultano più congeniali gli investitori finanziari nell’editoria, che o sono vecchi amici in freddo ma forse recuperabili come Della Valle o sono azionisti pro tempore di aziende in vendita, e dunque bisognosi di tranquillità, come Tronchetti Provera ovvero dirigenti di aziende che devono “stare al mondo” come Mediobanca e Unipol. Meglio costoro di un editore puro che mira ai risultati economici e pensa che i giornali e le TV vivono ancora di diffusioni e di ascolti: se il governo raggiunge il 30-35 per cento dei consensi potrà forse avere – e ripeto: forse – la riconferma grazie all’Italicum, ma un editore è proporzionalista e non può trascurare i due terzi che possono perdere le elezioni, perché disuniti, ma rappresentano la maggioranza del pubblico pagante.
Il futuro del Corriere della Sera non passa dall’intervista a Giovanni Bazoli che preannuncia il suo sì al referendum turandosi il naso, ma dalla capacità di rinnovarsi nella continuità producendo pensiero nuovo (e nuovi servizi a pagamento, magari on line) a partire dalla inchieste e dalle analisi che, grazie a un editore strutturalmente indipendente, potrà fare come nessun altra testata italiana è nelle condizioni di fare. Certo, continuità non può voler dire restare ancorati ai miti liberisti degli anni Novanta, incuranti della storia, e le eco fiacche di quei miti nelle varie Leopolde. Il futuro della Rcs. L’esito dell’offerta pubblica di scambio è stato il migliore possibile per Cairo. Gli assicura il controllo della casa editrice con il minimo sforzo e gli lascia il controllo assoluto della Cairo Communication (CC). Se avesse ottenuto il 100 per cento delle azioni Rcs, Cairo sarebbe sceso sotto il 40 per cento nella CC e si sarebbe esposto al rischio di un take over.
Le azioni a voto maggiorato, che vara nella sua CC per essere tranquillo in assemblea, non l’avrebbero difeso perché decadono in caso di Opa. Mediobanca avrebbe potuto accettare il rilancio di Cairo a 80 centesimi carta contro carta, spingere il mercato a fare altrettanto e poi scalare CC. Ma Alberto Nagel e Andrea Bonomi non hanno seguito questo copione, che pure è un classico delle guerre finanziarie. Forse perché la CC proprio non gli piaceva. Forse per altre ragioni che rimarranno sepolte tra i segreti di piazzetta Cuccia. Comunque sia, hanno fatto male i conti. Adesso Cairo, che ha conservato un po’ della liquidità che già aveva e non ha usato i denari messi a disposizione da Intesa Sanpaolo, potrà varare, se crede e comunque più avanti, un aumento di capitale in Rcs avvalendosi della delega già ottenuta dal consiglio senza passare dalla assemblea straordinaria. In questo caso, i soci cosiddetti storici si troverebbero nell’imbarazzo di vedersi diluire o di finanziare l’editore che avevano contrastato.
Concludendo. Qualcuno ha osservato che Mediobanca, quando si trova di fronte Bazoli, oggi presidente emerito di Intesa Sanpaolo, finisce con il perdere. E’ accaduto quando per due volte, con Gemina e Generali, Mediobanca tentò la conquista del Nuovo Banco Ambrosiano. E quando la banca di Bazoli soffiò la Cariplo alla Comit. Ma nel 2012 sulla sistemazione di Fonsai, una partita crucialissima, fu Mediobanca ad avere la meglio appoggiando l’Unipol contro il tandem Meneguzzo-Arpe dietro il quale si profilava l’ombra di Intesa Sanpaolo. Quanto a Rcs, il vero dominus è stata quasi sempre la Fiat, con gli effetti che, prima di accettare il compromesso, aveva denunciato anche Della Valle.
In via Solferino, Bazoli ha per lo più cercato di evitare il peggio. Come quando, d’intesa con Cesare Geronzi, promosse la seconda direzione De Bortoli evitando la nomina del direttore berlusconiano che suggeriva Montezemolo, con tutti i suoi amici. O come quando, più recentemente, e con l’aiuto di altri come Tronchetti, fermò la Fiat che sognava di fondere Stampa e Secolo XIX nel Corriere acquisendone il controllo di fatto senza sborsare un euro. Bazoli può considerare chiusa la sua funzione di garanzia in via Solferino. E Mediobanca deve prendere atto di aver perso una partita di alto contenuto simbolico. Ma per questo può dirsi finita, se saprà risolvere il suo problema strutturale: non ha più le banche Iri alle spalle, conserva influenza su Generali e Unipol, ma è finita la stagione nella quale poteva usare a piacimento gli amici. E allora, dopo tanti tentativi di costruire un “dopo Cuccia” giocati sulle persone, è arrivato il momento delle scelte sul modello d’impresa: Mediobanca può restare da sola contando qualcosa o deve reinventarsi come braccio secolare di un grande gruppo bancario qual è Unicredit, dove sono confluite due delle tre banche Iri, il Credito Italiano e la Banca di Roma? In fondo, Banca Imi, che ha condotto Cairo alla vittoria, conta sull'abilità di Gaetano Miccichè ma anche sulla forza di Intesa Sanpaolo, che la possiede.