Nel processo mediatico-giudiziario il garantismo non sussiste
Corriere della Sera: “Voti e camorra, bufera sul Pd”. La Repubblica: “Il presidente pd in Campania indagato per camorra e voti”. Il Giornale: “Il consulente di Renzi indagato per camorra. Il Fatto quotidiano: “Campania, indagato il leader Pd. ‘Voti per favori ai boss Casalesi’”. Sono i titoli di apertura di alcune prime pagine dello scorso 27 aprile sull’inchiesta della Direzione distrettuale antimafia (Dda) di Napoli che aveva portato a nove arresti per associazione a delinquere e corruzione e in cui era coinvolto Stefano Graziano, consigliere regionale e presidente del Pd campano, con l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa. Graziano era sospettato di aver chiesto e ottenuto appoggi elettorali in cambio di favori e appalti dal clan guidato da Michele Zagaria attraverso l’intermediazione di un imprenditore. A bufera appena scoppiata, il consigliere regionale dem si era autosospeso dal partito, dichiarando la propria estraneità alla vicenda e l’intenzione di incontrare gli inquirenti per “fornire ogni spiegazione”. Le spiegazioni devono essere state abbastanza esaustive se la stessa Dda di Napoli l’altroieri ha chiesto l’archiviazione per il concorso esterno in associazione mafiosa e stralciato la posizione di Graziano, inviando gli atti alla procura di Santa Maria Capua Vetere che dovrà valutare se ci sono gli elementi per la sola ipotesi di voto di scambio, senza l’aggravante della finalità camorristica. In pratica Stefano Graziano non era e non è, neppure per la Dda, un fiancheggiatore della camorra. Se era rilevante la notizia che l’ex presidente del Pd campano potesse essere colluso con la criminalità organizzata, lo sarà altrettanto il fatto che non lo è? No. Sugli stessi giornali la notizia del proscioglimento di Graziano è riportata in un trafiletto o in un boxino a pagina 14, 15 o 16 e in nessun caso con un richiamo in prima.
Eppure l’inchiesta era stata al centro del dibattito politico. Marco Travaglio sul Fatto aveva dedicato alla tema un editoriale dal titolo “La Gomorra della Nazione”: “Renzi aveva appena finito di dire che è passato il tempo della politica subalterna ai pm (ma quando mai) e si è subito scoperto il perché: il presidente del suo partito in Campania preferiva la subalternità alla camorra, per la precisione al clan dei Casalesi”. Roberto Saviano su Repubblica scriveva che la vicenda simboleggiava “la resa del Pd al meccanismo criminale”. Il Movimento 5 Selle parlava di “Gomorra Pd” chiedendo le dimissioni di Graziano per essere stato eletto con i voti della camorra. Luigi Di Maio, candidato premier in pectore dei grillini, dichiarava: “Quello di Graziano, il presidente del Pd campano che prendeva i voti dal clan dei casalesi, è l'ennesimo scandalo che ogni settimana coinvolge il partito di Renzi”. Pochi giorni fa il rientro di Graziano tra i banchi del consiglio regionale aveva scatenato le proteste dell’opposizione e in particolare del M5s, che ha abbandonato l’aula. “Di fronte a quanto accaduto in aula non posso non ribadire che si è innocenti fino al terzo grado di giudizio”, aveva dichiarato il consigliere. Invece è bastato l’avviso di garanzia a far trasformare l’accusa in condanna e ora al tribunale del popolo il proscioglimento non interessa più. Giustizia è sfatta. Purtroppo il trattamento subìto da Graziano non è un caso patologico del rapporto tra informazione e giustizia, ma la fisiologia del circo mediatico-giudiziario in questo paese, come diversi casi recenti dimostrano.
Pochi giorni fa, il 19 luglio, il tribunale di Padova ha archiviato il procedimento nei confronti di Romano Marabelli, ma la notizia è stata ignorata. Non era accaduto lo stesso quando il dirigente del ministero della Sanità è stato indagato. Marabelli era finito sulla prima pagina dell’Espresso perché accusato, insieme alla ricercatrice e deputata Ilaria Capua di essere al vertice della “Cupola dei vaccini”, un’associazione a delinquere che avrebbe commesso contrabbando internazionale di virus, corruzione, diffusione di epidemie, abuso d’ufficio, turbativa d’asta e una serie infinita di reati finalizzati a favorire gli interessi commerciali di alcune aziende farmaceutiche in cambio di denaro. L’inchiesta della procura di Roma si è sbriciolata prima davanti al tribunale di Verona e ora a Padova, ma quando nel maggio 2014 Marabelli venne nominato da Beatrice Lorenzin numero due del ministero della Salute, l’Espresso fece partire una campagna sostenuta dal M5s e Sel per chiederne le dimissioni. Così Marabelli è stato scaricato dal ministero che da due anni l’ha lasciato a casa senza stipendio e senza scuse, quelle da parte di nessuno. Ilaria Capua ha subìto un trattamento ancora più duro, ha resistito alle richieste di dimissioni quando era indagata e le ha date ora che è stata completamente scagionata, ne discuterà alla Camera a settembre. L’Espresso, che le aveva dedicato la copertina “Trafficanti di virus”, non ha trovato lo spazio per dare la notizia del proscioglimento dopo la sentenza.
Sempre qualche giorno fa è stato assolto Maurizio Venafro che, per l’accusa di turbativa d’asta in un procedimento collegato all’inchiesta di “Mafia capitale”, si era dimesso da capo di gabinetto del presidente della regione Lazio Nicola Zingaretti. Per i grillini non bastavano le sue dimissioni, ci volevano anche quelle di Zingaretti. Non è servito a Vasco Errani il gesto delle dimissioni da presidente dell’Emilia-Romagna, come richiesto dai giustizialisti, per avere un trattamento migliore al momento dell’assoluzione. Nel 2014, dopo la condanna in Appello per falso ideologico, il Fatto quotidiano apriva in prima pagina: “Renzi salva un altro condannato: Errani”. Quando pochi mesi fa è stato assolto lo stesso giornale gli ha dedicato un trafiletto.
Agli ex assessori comunali di Firenze Gianni Biagi e Graziano Cioni l’inchiesta e le prime sentenze di condanna per corruzione sono costate la carriera politica, oltre a otto anni di sofferenza. E anche dopo che è arrivata l’assoluzione in Cassazione, i due si sono ritrovati in televisione sul tabellone di Alessandro Di Battista che mostrava i tentacoli della “Piovra Pd”. Altro che scuse o solidarietà, il marchio d’infamia resta e non bastano le assoluzioni definitive, figurarsi le dimissioni preventive. E’ forse per questo che ha scelto un’altra strada Vincenzo De Luca, indicato da Rosy Bindi e M5s come “impresentabile” per il processo Sea Park. De Luca si è candidato, è stato eletto presidente della Campania e ora, dopo diciotto anni dall’inizio dell’inchiesta e otto di dibattimento, l’accusa ha chiesto l’archiviazione perché il fatto non sussiste.