matteo Salvini all'apertura della campagna elettorale di Giorgia Meloni al Pincio

Salvini e Meloni, fratelli o coltelli?

Leopoldo Mattei
Uniti dal dissenso per Parisi ma disuniti sul resto. L’antica diffidenza tra i due leader di Lega e Fratelli d’Italia non fa che aumentare con il passare dei mesi e degli appuntamenti elettorali. Si sgonfia la Lega Italia. La storia di un flop annunciato.

Roma. Nessuno dei due dubita che dovranno tornare a sedersi attorno ad un tavolo, a discutere del futuro e, forse, a costruirsene uno tutto loro, diverso da quello di Forza Italia e di Stefano Parisi. L’ipotesi della “Lega d’Italia” esiste, ma le macchine sono ferme, gli sherpa si sono presi una lunga vacanza. Tra Salvini e Meloni, del resto, sono tutt’altro che rose e fiori. L’antica diffidenza tra i due leader di Lega e Fratelli d’Italia, 42 anni il primo e 39 l’altra, non fa che aumentare con il passare dei mesi e degli appuntamenti elettorali. Sabato scorso, per esempio, il segretario leghista non si è presentato all’assemblea degli amministratori locali del centrodestra che pure avevano convocato insieme.

 

Ha “chiesto scusa” e spiegato di essere stato trattenuto altrove  da “problemi famigliari”, ed ha provato a cavarsela con un live video piuttosto generico, un comizio virtuale. Così la photo opportunity dell’evento è apparsa diversa da quella che, a novembre  2015, sul palco di Bologna, sembrava disegnare una coalizione compatta. Quel giorno, davanti a una folla festosa, i due giovani segretari – grazie anche alla mediazione di Giovanni Toti, che oggi sembra più vicino a loro che all’ex premier – avevano costretto Berlusconi a presentarsi sul palco (quasi) contro la sua volontà. Otto mesi dopo, nella foto di Arezzo ci sono solo lei, Roberto Maroni il governatore forzista della Liguria. In sala, per la verità, era presente pure Fitto, fondatore dei Conservatori e riformisti, anche se l’ex ministro non ha voluto comparire nella  fotografia finale di rito. L’asse lepenista si è sviluppato per un anno in un clima di sospetti reciproci, nella rivalità di due leader provenienti da storie e realtà diverse, ma col medesimo elettorato, quindi destinati a darsi fastidio.

 

“Matteo” e “Giorgia” si sono scambiati tanti sms, ma si sono fatti altrettanti dispetti. Non ci sono state soltanto la gara a chi stringeva più e meglio la mano a Marine Le Pen, l’opa del leghista sulla destra romana e le polemiche sulle liste, ma, soprattutto, l’ex ministro della Gioventù non ha mai perdonato all’eurodeputato l’operazione che l’ha poi costretta a candidarsi sindaco nella Capitale – cioè l’iniziale via libera leghista ad Alfio Marchini per mezzo dei gazebo e poi il rimbalzo su Guido Bertolaso –, così come di non avere accettato di correre lui stesso per Palazzo Marino, a Milano. “Oggi avremmo un altro centrodestra”, ripete spesso lei ai colleghi di partito. Già alle comunali, in realtà, l’asse tra i due partiti era andato in stress, visto che per esempio a Napoli e Torino i due partiti sostenevano candidati sindaci diversi. Ora i due hanno deciso che resterà tutto fermo in attesa di fine settembre, del parto della primogenita dell’ex candidata a Roma e, soprattutto, del referendum. Unico segno di vitalità il possibile “ritorno” di Daniela Santanchè. Il leghista ha un altro problema: il fallimento dell’operazione “Noi con Salvini”, il conseguente e lento “ritiro” dal Mezzogiorno lascia nella “pancia” del Carroccio dirigenti presi in prestito da altri partiti che ora sperano di poter essere candidati e, se così non fosse, minacciano la fuga.

 

Un listone lepenista, una “Lega d’Italia” che porti nel progetto quel che resta della struttura che fu di Alleanza nazionale, che era stata fortissima nel Sud, potrebbe risolvere il problema. In questo caso, Fdi – in ritirata al Nord, specie a Milano – dovrebbe ripiegare sul Centro-Sud. Basteranno il no “senza se e senza ma” al governo e le dichiarazioni roboanti contro l’immigrazione clandestina e Alfano a cementare due partiti così diversi? Sia Salvini sia Meloni sembrano dubitarlo. Così, per un po’, non ci saranno iniziative comuni. E se il primo teme il ritorno di “vecchi arnesi” e non sembra disposto a rinunciare in alcun modo al suo marchio, la seconda sospetta che “in fondo” al segretario della Lega “non interessi governare, ma solo fare casino”. E sia lui che lei nutrono dubbi che l’altro stia riaprendo i canali con Arcore. Falso. Chiusa – per il momento – anche la partita per la leadership. Lo scouting durato mesi del leghista Giancarlo Giorgetti, considerato “il Gianni Letta di Salvini”, alla ricerca dentro Forza Italia di un potenziale candidato vice-premier disposto a correre alle primarie del “vecchio” centrodestra in ticket col segretario del Carroccio,  è fallito, così come – probabilmente – l’idea stessa delle primarie di coalizione.

 

Il Cavaliere, come aveva promesso loro nei difficili giorni della chiusura delle liste per le Amministrative, non sta più cercando né l’uno né l’altro, i rapporti sono inesistenti e le porte chiuse. Su una cosa “Matteo” e “Giorgia” sono concordi: non amano il neo-coordinatore di Fi, non hanno condiviso la sua campagna elettorale all’ombra della Madonnina che è stata giocata con grande autonomia, senza coinvolgerli mai troppo. “Si comportano come due ragazzini”, ha tagliato corto il Cav. all’ultimo “caminetto” di Arcore.