Cosa possono fare i grandi partiti per non farsi sedurre dalle sirene del protezionismo
I partiti della nazione avranno la meglio sui nemici dell'apertura solo combattendo la teologia del Dio denaro. Nuovi bipolarismi.
I partiti della nazione avranno la meglio sui nemici dell’apertura solo combattendo la teologia del Dio denaro. Nuovi bipolarismi.
La cancellazione del discrimine tra destra e sinistra era diventata nel tempo una stucchevole filastrocca. Per quelli di sinistra, un modo di stare a destra, ma più comodi, dalla parte del progresso anche loro. Per quelli di destra, una furbata che svirilizza e alla fine spegne ogni passione ancorata nella tradizione, e conduce al politicamente corretto. Una schermaglia ideologica, ma senza radici nella realtà. Poi è arrivato l’Economist, che essendo il giornale più intelligente del mondo ha fatto i suoi collegamenti, ha argomentato “la nuova linea di divisione politica” tra chiusi e aperti (drawbridge uppers e drawbridge downers: quelli che vogliono alzare i ponti levatoi e quelli che no), superando il vecchio confine di destra e sinistra, e ha spiegato con tratto analitico invece che con spirito retorico la principale trasformazione in corso nelle società occidentali sviluppate.
Non c’è niente di assolutamente nuovo nella ricognizione dell’Economist. Si parte dallo strano e bilaterale carisma del nazionalismo isolazionista di Trump, nelle sue commistioni con quello di Sanders sul terreno comune della diffidenza per il libero commercio internazionale nell’epoca della globalizzazione; si parla dei redditi stagnanti negli ultimi due decenni, della ruggine nelle città delle ciminiere e nei comprensori industriali, della dinamica demografica con il declino dei nativi bianchi occidentali e il loro rimpiazzo con ondate forti immigratorie, spesso senza vera integrazione, al contrario di quanto avveniva nel passato americano del melting pot; si fanno i conti con le questioni dell’ordine, della giustizia, dello scontro di criteri di vita in ogni campo, compreso il gender e la famiglia e il sesso; si racconta la tecnologia futuribile con le sue mirabilie e con le rinunce che impone nel mercato del lavoro; si fanno i casi della Polonia, dell’Austria, a volo d’uccello si sorvolano le democrazie del nord Europa, ci si misura con le questioni derivanti dal terrorismo islamista e dal suo impatto in Francia, Belgio, Germania (con una certa prudenza quanto allo sfondo tragicamente religioso delle incursioni in terra miscredente). Insomma, sono messe in rassegna con acume e precisione tutte le cose che crediamo di sapere e i cui dettagli ci attendiamo di leggere nella buona stampa e informata.
Ma c’è qualcosa di più, qui non sono solo dati e riflessioni su società, mercato del lavoro, banche e finanza, produzione e sviluppo, illuminate dalla nota ideologia liberale modernista del settimanale britannico. E questo qualcosa di più è la conclusione che l’Economist trae dal panorama descritto. Primo. Non dobbiamo disperare. I nemici della apertura (dei mercati e di molto altro) hanno per loro il momentum, ma i giovani elettori secondo tutte le ricerche stanno dalla parte opposta, sono meglio istruiti, e se il voto sulla Brexit si svolgesse fra dieci anni gli unionisti che volevano mantenere il più poderoso mercato liberato e unificato della storia vincerebbero senza problemi. Secondo. I mercati aperti devono essere difesi con orgoglio, senza cedere (come in parte fa la Hillary Clinton) alla tentazione del compromesso con le posizioni neoprotezioniste: quei mercati hanno ridotto la povertà, hanno aumentato la ricchezza, possono e devono subire correzioni nella distribuzione ineguale del reddito e del lavoro, ma sono la fonte assoluta della prosperità e dei grandi successi raggiunti nell’occidente che conosce quel che nessun altro conosce, il welfare, il benessere, la cura pubblica e la tutela della persona privata e della famiglia.
Terzo. Con un forte discorso, possibilmente l’opposto della teologia del popolo di Papa Francesco, che polemizza con i costruttori di muri per criticare il Dio denaro e non per opporre la loro chiusura nazionalistica alle virtù di sviluppo e di progresso della globalizzazione capitalistica, occorre poi varare alleanze tattiche in grado di contenere e respingere l’assalto ideologico e sociale in corso contro la società aperta e il suo fondamento economico e strutturale: l’Economist parla dei partiti della nazione che, senza sublimazioni propagandistiche, hanno impedito a Jean-Marie Le Pen di conquistare l’Eliseo, e presumibilmente dovranno impedire alla figlia Marine di riuscire nell’impresa fallita dal padre, e spinge per un esame di tutte le altre alleanze tattiche provvisorie, derivate dal nuovo vero confine tra aperturisti e antiglobalizzatori, capaci di evitare al mondo libero “il rischio più grave dai tempi del comunismo”. Tra queste novità e invenzioni tattiche, ovviamente, primeggia quella dei conservatori e repubblicani americani chiamati a scegliere il male minore di Hillary Clinton e a far pesare la loro partecipazione consapevole al conflitto. Lezioni per tutti, di un giornale che sa anche sbagliare, ma con intelligenza e semplicità.