Parisi visto dalla tana dei lupi
Roma. E ogni tanto Stefano Parisi, tra i denti, dice di loro: “Quelli sono una massa completamente ubriaca di servitù e d’ambizione. Gatti che recitano la parte di tigri”. Li considera un ceto politico fissato a un’idea d’immobilità che si preserva nel fondo, al di là delle accelerazioni del tempo e degli occasionali, e modesti, trionfi elettorali, come quello delle ultime amministrative, un ceto politico esaurito, e mediamente accomodato. E così loro, gli uomini di Forza Italia, che gli pre-esistono, “e che continueranno a esistere anche dopo che Berlusconi si sarà stancato di lui”, come dice ogni tanto Gianfranco Rotondi, imbracciata l’artiglieria gli ricambiano la cortesia. Alcuni con un silenzio carico di fastidio, con il mutismo eloquente di Paolo Romani, o con quello altrettanto intellegibile di Mariastella Gelmini, che si sottrae alla libera giostra dei giudizi e all’audacia delle parole (“te lo dico io, Parisi se continua così farà una fine ri-di-co-la”, si abbandona Altero Matteoli), ma che pure, forse, come molti dirigenti di Forza Italia in Lombardia, imputa a questo manager dall’aria pulita un certo grado di approssimazione.
Pare infatti che Parisi sia considerato da loro il vero colpevole della sconfitta alle comunali di Milano, perse per un soffio, circa cinquemila voti, perché “Parisi ha allontanato la Lega, ha permesso a Gabriele Albertini di attaccare pubblicamente Salvini, uno di cui avevamo bisogno per vincere”. La campagna elettorale milanese si concluse d’altra parte senza nemmeno Roberto Maroni in piazza. Il governatore della Lombardia chiamò all’ultimo momento, accampando la scusa d’imprevisti impegni famigliari. E allora la caratteristica di Forza Italia è la confusione delle voci, il chiasso: è un luogo dove si palleggiano invidie, rancori, timori, frottole, minacce, furbizie. Renato Brunetta è ovviamente il più sbrigliato della compagnia, e come un tempo si candidava al premio Nobel adesso s’immagina lui stesso a capo del centrodestra, e non lo nasconde nemmeno. Anzi, assiso, in piedi sulla garritta del “no” al referendum, ha pure stabilito da solo il sistema con il quale lo si potrà individuare: “Il candidato premier verrà fuori dalla campagna referendaria, che sono le nostre primarie”.
E Parisi? “Non ci serve un amministratore delegato”. E d’altra parte, si sa, è più facile cambiare le idee che i vizi degli uomini, non si può guarire da se stessi. Dunque, mentre Maurizio Gasparri ne fa quasi una questione estetica – “non possiamo diventare il partito dei fighetti. Hai visto che fine ha fatto Passera? E Montezemolo?” – Giovanni Toti si fa largo nel folto delle parole per afferrare il nocciolo della questione: “La convention che Parisi vorrebbe fare a settembre sta già assumendo caratteri grotteschi. C’è Albertini, che fino a luglio ha votato la fiducia a Renzi. C’è De Albertis, che è un dirigente di quella Confindustria che voterà ‘sì’ al referendum. Poi ci metti dentro pure Sacconi, Quagliariello… Non vedo il rinnovamento e nemmeno la coerenza. Questa è una zona grigia, renziana. A perdere il quid, Alfano ci ha messo un anno. Parisi potrebbe metterci tre mesi”. E insomma, come si vede, la materia del contrasto è così vasta, come dicono gli storici, che ci si perde. E se per caso, per avventura ci si imbatte in un colonnello di Forza Italia che limpidamente sostiene Parisi, come fa Antonio Tajani, allora tutti gli altri corrono a spiegare che la sua è una benignità incitata dal calcolo, a doppio fondo, interessata: “Vuole essere eletto presidente del Parlamento europeo, ha bisogno dei voti del Ppe, dei voti tedeschi, fa suo tutto ciò che contrasta con la Lega, dunque anche Parisi”.
Il Cav. annuisce ma resta silente
Quando gli viene concesso, questi strepiti vengono anche ammessi nella sala del trono di Arcore, dove il Cavaliere stanco ascolta, ben sapendo che il clamore e lo strepitare di Forza Italia ha, netta, l’inflessione corale della supplica lamentosa. E allora difende Parisi, il Cavaliere, l’ultimo delle sue prestidigitazioni, dei suoi delfini, malgrado adesso, gli spettatori certo interessati, raccontino che nella voce del vecchio Capo, e nel modo che ha di lodare Parisi, vi si cominci a scorgere una riserva che anche lo sguardo esprime chiaramente. Ma il Cavaliere dà quasi sempre ragione all’ultimo dei suoi interlocutori. Non significa niente. Non ancora. Il persuasore deve stare coi santi in chiesa e coi ghiottoni in taverna, far la voce del lupo fra i lupi, zoppicare con gli zoppi e urlare con gli indemoniati. Lo vogliono mettere sotto pressione, ma non è la prima volta. Lui fa spallucce e perde tempo, per guadagnare tempo.