Contro la mitologia della natura buona. Il sisma e i danni dell'Agenda Settis
C’ è una storia piccola ma significativa che emerge dalle macerie di una storia più grande, ovviamente quella del terremoto, e che per molti aspetti è indicativa di un tratto culturale importante che caratterizza una parte dell’opinione pubblica del nostro paese. E’ una storia che si verifica dopo ogni tragedia legata a un qualche disastro naturale, a un cataclisma, a un terremoto, a un’inondazione, e che in un certo modo spiega bene la ragione per cui si tende, quasi inconsapevolmente, a negare che possano esistere delle tragedie in un certo senso naturali, in cui cioè non esiste altro colpevole se non la forza della natura.
Anche questa volta, dopo il violento sisma che ha inghiottito le vite di circa trecento persone nel centro Italia, abbiamo assistito allo stesso fenomeno messo in pratica dal giustiziere collettivo: la ricerca ossessiva di un capro espiatorio dietro il quale nascondere l’incapacità di accettare che in alcune situazioni ci sia un dolore che non si può imputare a nessuno se non, come direbbe Giacomo Leopardi, alla “natura matrigna” (“O natura, o natura/ Perché non rendi poi/ Quel che prometti allor?/ Perché di tanto/ Inganni i figli tuoi?”, “A Silvia” 1828). La ragione per cui risulta dunque difficile accettare che ci possa essere una natura matrigna, che uccide senza alcuna spiegazione razionale, è legata non solo al tentativo della nostra mente di voler sempre razionalizzare il male cercando una qualche spiegazione che ci possa rassicurare in vista di tragedie future (con tutta la tecnologia migliore del mondo, il terremoto non sarà mai a rischio zero) ma anche a una precisa raffigurazione della natura come un’entità sana, buona, moralmente inattaccabile e dunque, automaticamente, per nessuna ragione colpevole o tantomeno omicida. E’ una sfumatura quasi impercettibile, una piccola storia nella grande storia del terremoto, ma è la spia di una questione più importante che riguarda un virus iniettato nelle arterie del nostro paese dall’internazionale del benecomunismo. Un virus che da anni ci porta a ragionare secondo uno schema rigido, quasi meccanico: la modernità è un problema, il progresso ci ha corrotto, l’industrializzazione ha distrutto la terra dei nostri avi e per questo il ritorno al passato, il ritorno allo stato di natura, quando tutti eravamo felici e non c’erano ogm, non c’era acqua privatizzata, non c’erano treni ad alta velocità, non c’erano palazzi moderni costruiti ovviamente dagli affaristi e dai costruttori vicini alle mafie, è l’unica soluzione possibile per evitare che lo sviluppo selvaggio continui a essere la vera causa dell’infelicità umana.
“Un tempo – ha ricordato con ironia Chicco Testa in un libro quanto mai attuale, “Contro (la) natura”, Marsilio – l’uomo, vivendo a contatto con la natura, non corrotto e non inquinato dagli elementi artificiosi del progresso e della civiltà, sapeva vivere; oggi non più. Una simile analisi, che individua chiaramente le cause del problema, fornisce indubbiamente una soluzione categorica e indefettibile, quella di rimuovere le ragioni che ci hanno allontanato dallo stato incorrotto e primigenio originario ritornando a un rapporto diretto e spontaneo con la natura, sorgente della nostra realizzazione, ‘madre benevola’, quasi idolatrata e, quindi, Natura”.
Come ha notato il professor Carlo Lottieri, in un delizioso articolo pubblicato la scorsa settimana sulla Provincia, il benecomunismo ha contribuito in modo decisivo a costruire una sorta di mitologia della natura, arrivando a educare il paese promuovendo l’idea che “tutto andrebbe bene se solo l’uomo (il ‘distruttore’) non ostacolasse il regolare svolgersi delle cose”. La colpa, come ci ha gentilmente ricordato Salvatore Settis sul Fatto Quotidiano, è sempre del progresso, mai della natura, mai, tantomeno, come ha ricordato sabato scorso sul Foglio Umberto Minopoli, degli ambientalisti che hanno imposto al paese battaglie farlocche. Perché, sostiene Settis, tessera numero uno del partito del Bene Comune, i terremoti creano danni perché l’Italia ha perso tempo a inseguire il progresso, costruendo treni ad alta velocità e dimenticando di prendersi cura del proprio territorio. La colpa, dunque, è la modernità. E il passato è la soluzione.
Se c’è invece una lezione che ci arriva chiara dal post terremoto, una delle tante, è che le grandi infrastrutture servono non per corrompere il paese ma per controllare la natura. Processare chi ha sbagliato a costruire alcuni palazzi che avrebbero dovuto resistere con più efficacia al sisma è giusto e doveroso. Ma la ricerca forzata di un capro espiatorio continuerà ad alimentare un’illusione pericolosa: che la natura sia buona a prescindere e che ogni dolore causato da una catastrofe naturale possa essere spiegato attraverso un processo sommario a tutto ciò che si chiama progresso.