Ecco la fine da non far fare ai Radicali. Idee per un Congresso a rischio sclerosi
Al direttore - Non è rimasto più (quasi) nessuno a ritenere che le grandi questioni del nostro tempo si possano chiudere nel recinto di una nazione. Ma neppure le élites internazionaliste avvertono l’esigenza di un soggetto politico dove le questioni sovranazionali siano affrontate in prima persona da ciascun essere umano. Un partito al quale qualsiasi cittadino del mondo possa associarsi liberamente è indispensabile per condurre iniziative che non siano tarate sulla scala dello stato-nazione, ma su quella del problema da affrontare. Un siffatto partito è stato creato quasi trent’anni fa, con la trasformazione –su iniziativa di Marco Pannella – del Partito radicale. Non è una piattaforma neutra, ma un luogo connotato sia dal campo d’azione (“transnazionale”), che dal riferimento politico (“radicale”, nel solco di una tradizione illiuministica liberale) e di metodo (“nonviolento”). E’ un partito ancora oggi italofono, dal quale sono arrivati risultati importanti: dal tribunale penale internazionale alla moratoria sulle esecuzioni capitali.
Adriano Sofri, sulle colonne del Foglio, ha aperto un dibattito sul Partito radicale dopo Pannella partendo dallo Statuto e dall’opportunità di un Congresso. Il Congresso è in arrivo, per l’1-3 settembre nel carcere di Rebibbia. Un macigno che pesa è quello di un “eccesso di ragioni”. Non è più scandalo, ma quasi luogo comune, che si debba aver diritto di vivere e morire come si vuole, consumare la sostanza che si ritiene, unirsi tra donne o tra uomini, distinguere tra peccato e reato. Non fa ormai troppo scandalo sostenere che la pena di morte e la tortura non siano efficaci nel combattere il crimine, che il finanziamento pubblico ai partiti non ne diminuisca la corruzione, che la democrazia non si esporti né con armi né con menzogne, che non ci sia pace senza giustizia, che dove c’è strage di diritto ci sarà prima o poi strage di popoli. Una tentazione dalla quale rifuggire è quella di stancarsi di ripetere le stesse cose e perdere così la forza antica di certi ideali Una seconda tentazione è quella di ripetere “solo” le stesse cose, come se il contesto esterno fosse immutato.
Oggi la democrazia liberale ha subìto un crollo di credibilità in tutto il mondo, e non basta dire che ciò è accaduto proprio in conseguenza della violazione sistematica del diritto. Non basta ribadire che l’Unione europea è impopolare anche perché non è né unita né europea. Una volta preso atto della deriva neo-nazionalista e riaffermata la necessità dell’alternativa federalista-laica-liberale, rimane da individuare dove si attingano le risorse umane e ideali per mutare il corso delle cose. Ora che anche il Papa ha invocato la nonviolenza come forza del diritto in contrapposizione al diritto della forza, va compreso quale nonviolenza sia possibile per interferire, per esempio, con il tragico scenario siriano o il muro di morte nel Mar Mediterraneo alzato contro i migranti.
Le difficoltà oggettive potrebbero spingere i radicali a concentrarsi su questioni interne, certamente laceranti, ma forse non decisive. Secondo Angiolo Bandinelli, da una parte ci sarebbero quelli del Partito radicale, che “ha assunto una forma transnazionale (e transpartitica), ha ampliato i suoi orizzonti, lucida opposizione alla crisi delle democrazie e dei diritti, alla perdita dei poteri del parlamento e dei parlamentari”. Sarebbero i Radicali impegnati nella campagna per la transizione allo Stato di diritto e il diritto umano alla conoscenza. Dall’altra parte, ci sarebbe chi “ritiene sia necessario rovesciare la vecchia casacca, inventarsi un partito tutto nuovo. Lo fa frammentando gli obiettivi, moltiplicandoli, ‘nazionalizzandoli’, anche immiserendoli, nella convinzione che solo su questa strada si potrà incontrare la gente, farsi conoscere, raccogliere consensi”.
Mi pare una contrapposizione in parte forzata, in parte superabile. Se da un quindicennio il Partito radicale ha deciso di essere costituito, oltre che dagli iscritti, anche da una pluralità di soggetti tematici e territoriali, ciò è accaduto in ragione di una intuizione che rimane valida pur essendo da altri utilizzata con finalità antipolitiche: un’opinione pubblica sempre meno ideologizzata diffida di chi pretende di fornire una visione del mondo e preferisce aggregarsi su singole battaglie, in forme anche poco impegnative. Ma ciò non significa che sia impossibile legare assieme singoli obiettivi in un percorso di riforma complessiva delle istituzioni internazionali.
Quando si propone la “transizione allo stato di diritto e il diritto umano alla conoscenza” si deve esplicitare cosa si chiede e definire un percorso istituzionale cercando le realtà sociali che possano aiutare a compierlo. Sarebbe illusorio affidare soltanto alla sensibilità di chi esercita responsabilità istituzionali il compito di far rientrare lo stato nella legalità. A volte ciò può accadere, coltivando il dialogo nonviolento con la richiesta di rispettare le regole che il potere stesso si è dato. Altre volte invece non accadrà, perché il potere chiama più potere, come accade persino ai Parlamenti nonostante siano esposti al controllo democratico.
Una linea: il deperimento del potere statale
“Loro credono nel ‘potere’; noi puntiamo invece sul ‘deperimento del potere’, cioè del quoziente di violenza delle istituzioni”, diceva Pannella in un’intervista del 1976. Era un’altra èra politica, certo, e sono profondamente mutate le forme di oppressione. Ma ancora oggi il potere deperisce se si mette in crisi la sua capacità di controllare i corpi e le menti, la conoscenza e la vita, la nascita e la morte. Le battaglie settoriali tornano utili non solo per l’obiettivo in sé, ma per togliere energie a burocrazie pubbliche e private. L’antiproibizionismo sul corpo, sulle droghe, sulla sessualità, sulla ricerca, sulle famiglie, possono nell’assieme prefigurare un orizzonte mondiale di riforme nel segno della libertà e responsabilità individuale, di qualsiasi essere umano ovunque sia nato. Sono fronti di iniziativa che non “distraggono da”, ma anzi rafforzano l’impegno per la vita del diritto, le giurisdizioni e la giustizia anche a livello transnazionale. Basti ad esempio considerare l’interconnessione tra traffico di droghe e di migranti, oppressione delle donne, fondamentalismo e terrorismo.
Nella galassia radicale esiste certamente il rischio che le legittime ambizioni personali e le sclerosi organizzative finiscano per invertire il rapporto tra mezzi e fini e far prevalere l’inerzia dell’organizzazione sulla forza delle idee. E’ un rischio che si depotenzia anche attraverso una politica capace di includere obiettivi diversi, un metodo comune e una classe dirigente transnazionale in buona parte da costruire. Il Congresso di Rebibbia è una tappa indispensabile per arrivare alla convocazione di un Congresso transnazionale sulla base di una piattaforma libertaria e federalista che, non potendo contare troppo sugli stati “amici” del secolo scorso, si sappia rivolgere alle persone di buona volontà, ovunque si trovino.