Parisi si prepara a diventare il leader giusto
Milano. Il grande giorno di Stefano Parisi si apre con un tutti in piedi per ricordare Carlo Azeglio Ciampi. Che è un atto doveroso e persino normale, sennonché anche lo spunto per Stefano Parisi per liquidare subito uno dei ronzii di fondo più disturbanti attorno alla sua convention: quello di Matteo Salvini, del populismo all’italiana, della destra-destra che spacca, contrappone, dice solo dei no. Tutto questo alla due giorni di Energie per l’Italia non è invitato – ovviamente è assente, ma in platea qualcuno ha visto Pino Babbini, il mitico autista di Bossi, vedi come sono i casi della vita – fine del ronzio. Il grande giorno di Stefano Parisi è in un grande capannone nell’area postindustriale di Milano, lo spazio Megawatt. Tre maxischermi, oratori stringati e puntuali, niente bandiere né coreografie post berlusconiane, ma anche niente suggestioni cultural-sociali in stile Leopolda. Stefano Parisi è un buon comunicatore empatico, senza essere né Silvio né Matteo. Ma da un punto di vista estetico, che poi è uno specchio politico, è un uomo che lavora per sottrazione. Essenziale nella comunicazione, spazio alle idee, niente protagonismo. Molto manageriale, molto milanese. Sottrarre per Stefano Parisi, in politica, vuol dire: finirla col “clima di odio” del pubblico dibattito, finirla coi populismi ma anche con lo statalismo travestito da finto liberalismo che soffoca il paese, schivare le trappole di chi sta sempre a chiedergli se sta facendo un nuovo partito o se vuole mettere insieme i cocci del vecchio: “A Milano nasce una comunità nuova”, dice. E la parola non è banale, vedremo. Tirerà le somme oggi, al termine della due giorni. Però ora non parla più.
Nel capannone dello spazio Megawatt sfilano veloci oratori e slide, qualche contributo video. Poi ci saranno tavole rotonde, a tardo pomeriggio i direttori di giornali (Lucia Annunziata, Maurizio Belpietro, Luciano Fontana, Maurizio Molinari). Ma non sono loro il contenuto. I contenuti, invece, non lavorano per sottrazione ma per accumulo.
Ce n’è da farci dei seminari. Inizia Giacomo Lev Mannheimer, interfaccia operativa di Parisi, provenienza Istituto Bruno Leoni. Parla di una politica che “deve essere umile”, del liberalismo vero che significa “lasciare spazio ai cittadini”, di sussidiarietà. Spiega che oggi lo stato è il socio occulto di ogni impresa, l’ospite indesiderato che ogni sera si mette a tavola con le famiglie, e invece di occuparsi di ciò che la comunità e gli individui sanno fare benissimo da soli, le imprese, le scuole, l’innovazione, dovrebbe occuparsi di ciò che gli individui non possono fare, le infrastrutture, la sicurezza. L’articolo più bistrattato della Costituzione? Il 118, quello sulla sussidiarietà. Ma la riforma costituzionale viaggia nel senso opposto alla sua valorizzazione. Poi parla Massimo Gandolfini, il leader del Family day: l’allarme demografico, il suicidio di una società disvaloriale che non si cura della famiglia. Rosamaria Bitetti, ricercatrice universitaria, parla del gap nell’investimento sulla ricerca. Parla Gilberto Corbellini, storico della scienza d’impronta laica radicale. Suor Anna Monia Alfieri fa l’intervento più politico di tutti – basta con queste destra e sinistra dalle promesse inutili, basta con questo livello basso dell’informazione, e ovviamente di libertà di educazione. (Non faremo l’elenco di tutti, e di quelli di domani: ma si parla di tutto, di tasse e di religione, di medicina e aziende).
Un sondaggio Swg realizzato per l’occasione sulla domanda “Stefano Parisi leader del centrodestra” raccoglie come risposta più gettonata “potrebbe darsi”, 41 per cento. Guardando la platea del Megawatt, ascoltando gli interventi, si può provare a capire qualcosa di quel che gli intervistati colgono a naso. Non ci sono i frontman del centrodestra, Parisi i politici non li voleva proprio. Ci sono, interessati e curiosi, esponenti di zone politiche del centrodestra attualmente senza fissa collocazione, o che al momento “non si riconoscono” in quel che c’è: Scajola, Formigoni, Micchiché, Lupi. C’è Mariastella Gelmini, il resto del partito è lontano. Dalle alchimie della politica, dalla sostanza del mandato berlusconiano, e soprattutto dalla capacità di elaborare un liberalismo moderato riconoscibile e davvero alternativo al renzismo, dipende un pezzo della riuscita dell’operazione. Ma a guardare la platea, ad ascoltare gli interventi, a seguire il filo che lega gli argomenti, quel che si capisce è che il “potrebbe darsi” più importante è un altro. C’è un mondo liberal-liberista, c’è un mondo molto cattolico, c’è un’area sociale che ha come obiettivo (di sopravvivenza) liberarsi da un po’ di stato. E’ un’attenzione alle aree deboli che di un po’ di welfare, ma diverso, avrebbero bisogno.
Tenere insieme questa possibile “area di consenso è l’ipotesi ambiziosa del lib-pop” di Parisi. Che però ha un suo senso. Venerdì è stata trasmessa in video un’intervista a Philip Booth, l’economista inglese. Il succo del suo ragionamento, applicabile anche all’Italia, è che il mondo del welfare è finito, ma per sostituirlo non basta un generico “liberismo”, tutto sbilanciato sui diritti individuali. E’ contro questo – fine del welfare e risposte non compiute della società dei diritti – infatti, che in tutto il mondo, Usa compresi, monta il cosiddetto populismo. Serve, secondo Booth, un liberismo-liberalismo che riscopra “la comunità”, nel senso dell’insieme sociale non solo ridotto a individualità, ma a una rete di responsabilità collettive. Da una parte c’è la sinistra renziana, “che tende a diventare un partito dei diritti individuali”. Dall’altra parte, prova a immaginare Parisi, serve un “liberalismo di comunità” che tenga insieme tutte le istanze sociali che “individuali” non sono. Dalla scuola alla Sanità. “Potrebbe essere”.