Per spiegare la natura del M5s basta il “Grande Fratello” e il suo sacerdote, Rocco Casalino
Quando uscì dalla casa del “Grande Fratello”, quart’ultimo escluso della prima edizione, il comune di Ostuni gli dedicò una targa d’oro: “A Rocco Casalino rappresentante mediatico della nostra terra”. Tornò in paese scortato come una star di Hollywood, atteso da giornalisti, troupe televisive, col sindaco, i drappi tricolore alle finestre, la banda. Era la fine del 2000. Divenne uno dei figli prediletti di Casaleggio e pian piano prese in mano le redini della comunicazione del Movimento di Grillo.
A detta di molti, oggi Rocco Casalino è l’uomo-ombra più importante dei 5 stelle. Come dicono i commentatori del disastro romano: sale Di Battista, scende Di Maio, sale ancora di più Casalino. Ma la sua ascesa politica e il suo passato televisivo sono qualcosa di più che una coincidenza simbolica. Soprattutto per chi ha sempre ritenuto eccessiva l’enfasi posta sulla rete come chiave di lettura del M5s. In Italia. Con mezzo paese che non usa internet, la connessione in rame, una velocità di navigazione quattro volte più lenta della Corea e Di Maio che non sa leggere le mail. La stella di Casalino invece è lì a ricordarci che siamo ancora in piena èra televisiva, e che i reality sono la Terza Repubblica della tv italiana. La prima si specchiava nella Rai in bianco e nero del Maestro Manzi, di “Lascia o raddoppia” e degli sceneggiati russi. La seconda arrivò sulla scia delle monetine del Raphaël, ma ancora prima di “Dallas”, del “Festivalbar” e di “Drive In”. L’attuale scena politica ha le sue radici nella terza èra della tv inaugurata dai reality show. Web democracy, dittatura dello streaming, mito ottuso della trasparenza. Tutte cose che a guardare i video diffusi da Virginia Raggi hanno più a che fare con l’epica del “Grande Fratello” che col citizen journalism. Per questo, le ricostruzioni dell’identikit culturale del Movimento ci hanno sempre lasciato un po’ freddini. Più che la politica nell’epoca della rete, il Movimento di Grillo è l’incarnazione della reality television. E’ lì che va cercato il suo pantheon. E’ vero, il software della Casaleggio Associati lo hanno chiamato Rousseau (ma assomiglia di più a HAL 9000, il computer di “2001: Odissea nello Spazio” che inizia a fare di testa sua e fa fuori gli astronauti della missione). Si citano gli studi di Joseph Stiglitz e la decrescita di Latouche come solide basi dell’economia a 5 stelle, col primo che però ha sbugiardato Grillo (“non mi doveva tirare in mezzo alla campagna elettorale”) e il secondo che al massimo ha ispirato i detersivi fatti col limone, le piantagioni di aloe vera in terrazza e la famigerata mooncup, la coppetta mestruale riciclabile tra amiche. Ma quel misto di omeopatia, maoismo digitale, incazzatura da bar, complottismo, ecologismo radicale e avanzi di New age anni Novanta non basta a definire un elettorato che in gran parte resta ancora inclassificabile, almeno secondo i vecchi schemi del secolo scorso; schemi che con gli aggiustamenti post tangentopoli e l’arrivo della Lega tutto sommato tenevano ancora nella Seconda Repubblica (l’operaio e l’intellettuale a sinistra, il proprietario di casa al centro, lo statale ce la giochiamo). Per spiegare la natura del Movimento si citano le “Note sur la suppression générale des partis politiques” di Simone Weil, la mistica di Tolstoj, i documentari di Michael Moore, i boschi di Thoreau. Pare che Casaleggio avesse trovato negli scritti del filosofo trascendentalista americano lo sfondo ideale per quella sintesi tra ascesi e rivolta che forgia lo spirito del cittadino a 5 stelle. E poi Thoreau non stava solo nei boschi di Walden a struggersi per i cambi di stagione. Mise a punto anche un “Resistance to Civil Government”, molto letto da Gandhi e Martin Luther King.
Beppe Grillo con Rocco Casalino (foto LaPresse)
Aggiungi “Matrix” (per la visione complottista della realtà), aggiungi “Avatar” (per la visione panica della rete) e il gioco è fatto. Però non è facile immaginare il tassista romano anti-Uber con Rousseau sul cruscotto. Non è facile immaginare indignati anti casta che intimano di leggere Thoreau in caps lock, fate girare!!! Allora, ci convincono di più gli endorsement di questi anni. Un pantheon fatto di editoriali di Mina, supercazzole di Celentano, indignazioni di Dario Fo e appoggi sparsi un po’ ovunque, da Daniele Silvestri a Francesco Baccini, dal Jeeg Robot di Tor Bella Monaca a Sabrina Ferilli che disobbedisce al Pd, a Venditti che ci pensa ancora su, sino al formidabile inno di Fedez: “Le auto blu le lasciamo alla casta / guadagniamo quel che basta / per fortuna prima o poi / che qui governiamo noi”, che rilancia l’Uno vale Uno in un più vascorossiano “Lo facciamo solo noi”. E non è forse grillismo puro il tormentone dell’estate di Fabio Rovazzi, col-trattore-in-riva-al-mare-andiamo-a-comandare? A rileggere la lettera-manifesto di Grillo al Corriere, i riferimenti culturali sconfinano poi in un iperbolico streaming of consciousness tra Totò, Joyce e J-Ax. Già, la letteratura. Preziosa, quanto sottovalutata, fu l’indicazione di Virginia Raggi in campagna elettorale: “Il mio libro preferito è ‘Il piccolo principe’”. Il tema delle difficoltà del passaggio all’età adulta come prefigurazione dell’impaludamento capitolino del Movimento. E poi l’amore per le rose, il Sahara, l’asteroide B621, i pianeti lontani. Il libro perfetto.
Ma le radici di tutto quello che stiamo vivendo coi grillini sono nei reality, la più grande rivoluzione dell’industria dei media di questi anni, sino all’arrivo dei social. La prima integrazione sistematica tra televisione e rete, la messa in scena televisiva dell’uomo comune, l’acquisizione di potere da parte dello spettatore, la ridefinizione del pubblico come soggetto attivo che entra in gioco nella costruzione del programma, l’ossessione per la sincerità, la trasparenza, l’essere-se-stessi. La reality television apriva una nuova èra le cui premesse erano saldamente ancorate nella storia della tv, tra candid camera e “dilettanti allo sbaraglio”, solo che ora si faceva sul serio. I reality hanno travolto il sistema dei generi televisivi tradizionali e il Grande Fratello è stato per la tv quel che Tangentopoli fu per il sistema dei partiti. All’epoca della prima edizione, quella presentata da Daria Bignardi e vinta da Taricone – icona politicamente già inclassificabile per il bipolarismo di quegli anni – Virginia Raggi e Alessandro Di Battista hanno 22 anni. Di Maio 14. Gli spettatori dell’ultima puntata sono sedici milioni. Numeri oggi impensabili. Molti dei discorsi che all’alba del Duemila accompagnarono l’arrivo dei reality sembravano suggestioni, ma oggi sono chiavi di lettura ideali per capire il fascino del Movimento: democrazia diretta, connessione permanente, retorica della trasparenza e della partecipazione, crollo delle barriere tra tempo libero e tempo lavorativo, tramonto delle élite politiche e intellettuali. In mezzo, tra le vecchia televisione e i reality, c’è “Striscia la notizia”. Formidabile prova di indignazione generale, di partecipazione diretta del cittadino incazzato che non crede più ai partiti e alla Rai; e non serve neanche ricordare che Antonio Ricci fu autore di Grillo per “Fantastico” e “Te la do io l’America”, altro che progetto della P2.
Alessandro Di Battista (foto LaPresse)
A ridosso della prima edizione del “Grande Fratello” gli psichiatri lanciavano allarmi sui giornali: “Vivono da soli, hanno problemi di identità, questo l’identikit delle prime vittime da Grande Fratello”. Si presentavano casi clinici: “I primi casi sono stati scoperti a Palermo e Roma e presentati ieri al Congresso di psichiatria di Torino. Guardando il Grande Fratello quasi tutto il giorno, queste persone hanno cominciato a sentirsi parte del gruppo fino a vivere una falsa vita di famiglia con i personaggi del reality”. Prove generali di una costruzione inedita del consenso che superava sia a destra sia a sinistra l’ideologia televisiva di Berlusconi e il suo modello di comunicazione. Dalla plastica colorata del pop al vetro della trasparenza. La casa del Grande Fratello e l’arrivo delle cucine a vista nei ristoranti alla moda diventano gli emblemi di un’estetica della sincerità. Vogliamo vedere e sapere tutto, o almeno credere che sia così. “La Casa Comunale”, si legge nel blog di Grillo “è spesso sede di inciuci, intrallazzi, cariche da spartire e interessi da salvaguardare. Il cittadino deve tornare a essere il beneficiario delle azioni messe in campo nella gestione della cosa pubblica (…) per questo deve diventare un palazzo di vetro, dove tutti possono vedere quello che accade, possono partecipare, contestare, proporre, per una piena attuazione della democrazia”. Tutto torna. Come per le candidature su internet, ricalcate sul modello dei casting per i reality e ora affidate a un videomaker, dopo l’esperienza grottesca dei video fatti in casa. Come nelle surreali consultazioni in streaming tra Bersani, Vito Crimi e Roberta Lombardi, in una scena che sembrava uscita dalle conversazioni in cucina tra i partecipanti del Grande Fratello. Come nei codici di “comportamento dei candidati ed eletti del Movimento”, dove il grillino firma un documento in cui “dichiara di non far parte dei servizi segreti italiani o stranieri”, in un testo che sembra uscito dallo script de “La Talpa” – il reality che conduceva Paola Perego, coi concorrenti tutti indagati, impegnati a smascherare la talpa nascosta tra loro mentre il pubblico faceva una classifica dei “sospettati”. La dittatura dell’onestà si nutre della retorica dei reality.
Nel frattempo, a Roma siamo passati dalla massima trasparenza dello streaming ai vertici blindati. Ma non chiamiamoli così. Sono i loro “confessionali”. Vedremo chi è il più sincero di tutti. Chi è più “cittadino qualunque”, come dice Virginia Raggi che ha appena scoperto il brutto intreccio tra voyeurismo e politica. Noi invece aspettiamo i grillini al Grande Fratello Vip. Di Battista toy boy conteso tra Valeria Marini e Pamela Prati e Di Maio che spiega a Costantino le trame oscure del golpe di Pinochet in Venezuela.