Ciampi e il “metodo Baffi” alla prova dell'attacco affaristico-giudiziario
Roma. “Ricordo bene quel sabato, un sabato drammatico. Era il 24 marzo 1979. Quella mattina ricordo ancora che ero in macchina a via Nazionale, e in senso opposto transitò un’autoambulanza a sirene spiegate: non sapevo che dentro c’era Ugo La Malfa, ormai morente. Andai in Banca, lavorai tranquillamente. A un certo punto entrò nella mia stanza Sarcinelli che mi disse: ‘Carlo, sono venuti ad arrestarmi’. Mi precipitai da Baffi e lo trovai distrutto. Aveva in mano il documento che gli avevano consegnato, con l’incriminazione per lo stesso reato contestato a Sarcinelli”. Così l’appena scomparso Carlo Azeglio Ciampi ricordò la giornata che, inaspettatamente, l’avrebbe portato in breve tempo al vertice di Palazzo Koch: mentre alcuni magistrati sferravano un attacco micidiale alla Banca d’Italia, moriva il politico che più di tutti aveva voluto la nomina di Baffi e ne aveva difeso l’autonomia.
Paolo Baffi
L’incriminazione dell’allora governatore Paolo Baffi e l’arresto del responsabile della vigilanza Mario Sarcinelli fu uno dei primi casi – senz’altro il più clamoroso – di uso politico della giustizia, mascherato da alcuni pm con l’applicazione del principio dell’obbligatorietà dell’azione penale. L’intera vicenda è raccontata dallo storico dell’economia Beniamino Piccone in un libro appena pubblicato che raccoglie anche le lettere più significative di Baffi e che a partire dal titolo ne descrive il ruolo nella vita pubblica italiana: “Servitore dell’interesse pubblico” (Nino Aragno editore). A incriminare Baffi e Sarcinelli per favoreggiamento e interesse privato in atti d’ufficio sono il giudice Antonio Alibrandi, padre del terrorista nero dei Nar Alessandro, e il sostituto procuratore Luciano Infelisi, ma la volontà di colpire la Banca d’Italia arriva da quello che Baffi ebbe a definire come “complesso politico-affaristico-giudiziario”.
I due erano pretestuosamente accusati di aver chiuso gli occhi sui finanziamenti al gruppo chimico di Nino Rovelli, ma le vere colpe di Baffi e Sarcinelli erano di aver sciolto il cda di Italcasse (feudo finanziario della Dc), di aver ordinato un’ispezione al Banco Ambrosiano di Roberto Calvi e di essersi opposti ai piani di salvataggio delle banche di Michele Sindona, gli stessi piani a cui si oppose il commissario liquidatore Giorgio Ambrosoli pagando con la propria vita (e non è un caso se Baffi fu l’unico rappresentante delle istituzioni presente al funerale dell’“eroe borghese”). Baffi e Sarcinelli erano completamente innocenti e vennero prosciolti da ogni accusa due anni dopo, l’11 giugno 1981, ma l’inchiesta aveva già prodotto i suoi effetti: Baffi si dimise subito da governatore per evitare scontri istituzionali e per salvaguardare l’immagine e l’autonomia della Banca d’Italia. Fu proprio lui a suggerire come suo successore l’allora direttore generale Ciampi, che iniziò il mandato minacciando di dimettersi se Sarcinelli fosse stato costretto a lasciare l’istituto.
E tra i primi atti pubblici da governatore, nelle “Considerazioni finali” del 1980, l’ex Capo dello stato elogiò il predecessore indagato: “Le vicende che hanno preceduto la rinuncia di Baffi ci chiamano a un’altra responsabilità, non meno ardua. Esse hanno dato corpo al duplice dubbio che si siano ristretti in Italia gli spazi per persone di alta competenza, integrità morale, senso delle istituzioni e che la tradizione di efficienza e di autonomia della Banca centrale possa incrinarsi. La via da seguire è quella di attenersi al metodo di rigore etico e professionale di Baffi”. E il “metodo Baffi” è quello che Ciampi tenterà di seguire non solo negli anni a via Nazionale, ma in tutti i successivi incarichi istituzionali.