La legge sul cyberbullismo non avrà nessun effetto sul cyberbullismo
Ci provano da anni, ogni anno. Che siano le ferie di Agosto o le feste di Natale, che si tratti di tutela del diritto d’autore o di qualsiasi altro tema, ci provano ogni anno ad imbavagliare Internet. E stavolta, se il Senato non metterà una vera e propria pezza, ci saranno riusciti.
Questa volta il pretesto è stato quello di una malfatta legge sul Cyberbullismo approvata ieri alla Camera ed in attesa dell’ultimo passaggio al Senato. Malfatta in partenza, pensando che fosse possibile e sensato distinguere un bullismo “uno punto zero” ed un bullismo “virtuale”. Un bullismo da strada ed uno on-line, senza rendersi conto che il problema non è la rete, ma le persone che la usano. Senza rendersi conto che distinguere on-line ed off-line non solo è inutile, ma è dannoso. Lo è in quanto si basa su una rappresentazione della realtà spezzata in due che, nell’era dei social media, non esiste più. Una legge nata male insomma e - se possibile - peggiorata dall’iter parlamentare. Al punto che la stessa relatrice della prima versione, Elena Ferrara del Partito Democratico, ne ha criticato l’evoluzione. Al punto che persino Cory Doctorow – uno dei più autorevoli commentatori d’oltreoceano – l’ha definita la “legge censoria più stupida d’Europa”.
Ed è questo il punto più grave. Non stiamo parlando (solo) di una legge sul cyberbullismo che non avrà alcun effetto sul cyberbullismo, ma di una legge sul cyberbullismo che non è diventata altro se non un cavallo di troia. Come si fa a trasformare una malfatta legge in una potenziale "norma bavaglio” di carattere censorio per la libertà d’espressione in rete? Semplice, si taglia ed incolla a furia di emendamenti finché il danno è fatto.
Basta partire dalle definizioni – ossia dal “di cosa stiamo parlando” – che arriva ad includere qualsiasi fattispecie di reato che va dal bullismo alla violazione della privacy allo stalking a non meglio identificate azioni svolte on-line "che possano offendere l’onore, il decoro e la reputazione di una o più vittime”. Basta poi cancellare il riferimento ai minorenni, ed estendere la validità del provvedimento a cittadini di qualunque età. Ed il gioco è fatto. Il risultato è che la legge prevede che chiunque si senta offeso da qualsiasi cosa venga scritta in rete possa richiederne la rimozione immediata. Che sia satira o critica, che sia un blog o un giornale, che sia un post su Facebook o una foto su Instagram, tutto potrà essere rimosso senza appello. Rimozione la cui responsabilità sarà in capo al gestore del servizio - ancora una volta costretto a trasformarsi in un vero e proprio sceriffo virtuale - che, se non dovesse agire prontamente, vedrebbe l’intervento del Garante alla Privacy per l’oscuramento del contenuto incriminato.
Il tutto – col pretesto dell’urgenza – senza alcuna possibilità di dibattimento o di opposizione all’oscuramento da parte dell’accusato. La pena? Sino a sei anni di reclusione. Mica male. Se non fosse che i contenuti che colpiscono le vittime di bullismo quasi mai sono presenti in un “luogo” identificato, seppur virtuale. Viaggiano subdoli nelle chat, attraverso i sistemi di messaggistica istantanea come whatsapp, nei post privati lasciati sui social media. Se non fosse che chi pensa di oscurare i siti non si rende conto (o finge di non rendersi conto) che nell’era del peer to peer e del web liquido oscurare un sito è del tutto inutile.
E viene da chiedersi se tutto ciò dipenda dalla crassa ignoranza di una classe politica i cui esponenti – fatta eccezione per pochi esemplari da tutelare come i panda – non comprendono affatto le dinamiche della tecnologia, o piuttosto se ciò non sia, semplicemente, un disegno preordinato. Un disegno preordinato che ha l’obiettivo di imbavagliare quel po’ di libertà che è rimasta e che viaggia in rete: una rete che è nata libera e che libera deve rimanere. Perché il valore della libertà non lo si comprende sino a che non si rischia di perderla. E perderla, talvolta, è più facile di quanto si pensi.