Contro la retorica del trullo
Roma. “L’Italia ha perso una grande occasione, avere due saloni del libro a 100 chilometri di distanza che si faranno una concorrenza sfrenata è un pessimo risultato”, ha dichiarato il ministro dei Beni culturali Dario Franceschini. “Era una splendida occasione, ma purtroppo le reciproche rigidità hanno impedito questo orizzonte”, ha aggiunto il ministro dell’Istruzione Stefania Giannini. “Per noi c’erano tre punti da rispettare: un Salone unico con date uniche e una governance unica. Su questi punti non c’è stata mediazione”, ha commentato il sindaco di Torino Chiara Appendino. E persino l’assessore alla Cultura di Milano Filippo Del Corno ha detto che “si è resa impossibile la prosecuzione di un dialogo che si era avviato bene per un’occasione storica”. Il fallimento del “tavolo” per mettere fine alla “guerra” tra Milano e Torino attraverso la creazione di una “cabina di regia” per organizzare un unico salone del libro da tenere coordinatamente e contemporaneamente nelle due città, è stato accolto come una Caporetto del “sistema paese”. E se invece fosse un bene? Se invece questo salone del libro sdoppiato non portasse idee nuove, maggiore competizione, concorrenza e diversificazione dell’offerta? Dove sta scritto che per un paese e per la sua industria editoriale un solo salone o il “salone unico” siano meglio del formato Maxibon (“two is meglio che one”)?
D’altronde le differenze tra gli editori dell’Aie (Associazione italiana editori), che insieme a Fiera Milano ha fondato la Fabbrica del libro e ha deciso di organizzare una nuova fiera nel capoluogo lombardo, e i responsabili del Salone torinese erano diventate ormai inconciliabili, sia dal punto di vista della governance che economico. Gli editori volevano avere un ruolo più centrale all’interno della Fondazione rispetto al comune di Torino e alla regione Piemonte, ma dopo i problemi giudiziari e i continui deficit che hanno portato all’ingresso nella Fondazione di due ministeri (Mibact e Miur con 300 mila euro a testa), la situazione si è ulteriormente complicata. Oltre alla governance e alla difficoltà di far funzionare in maniera efficiente una “cabina di regia” con due ministeri, sindaci, banche e governatori, c’è anche una diversa visione strategica: gli editori, in particolare quelli più grandi, ritengono che la città di Milano sarebbe la vetrina migliore per dare al salone una dimensione internazionale. Non a caso il modello a cui si ispira l’Aie per Milano è la Buchmesse di Francoforte, la più importante fiera del libro in Europa, che è organizzata dall’Associazione degli editori tedeschi.
Dall’altro lato c’è chi, politici e medi editori, giustamente vuole difendere la gloriosa storia trentennale del Salone di Torino e teme che l’evento milanese sia esclusivamente commerciale e non più “culturale”. Si tratta evidentemente di prospettive incompatibili, che non si capisce come avrebbero potuto conciliarsi in una “cabina di regia”. Ciò che sorprende però sono le reazioni nei confronti dell’iniziativa milanese: per Appendino e Chiamparino è “irrispettosa e provocatoria”, altri hanno parlato di “scippo” e “colpo di mano”, l’ex direttore del Salone persino di “disgregazione di un presidio di civiltà”, alcuni scrittori e intellettuali in un appello hanno denunciato: “E’ davvero stupefacente che alcuni editori, in virtù della loro forza di oligopolio possano illudersi di mettere sotto il braccio una realtà costruita negli anni dalla passione di centinaia di migliaia di persone, partecipi e presenti, e portarsela da un’altra parte”. Sono reazioni paradossali, da parte di chi spesso elogia le differenze e ora chiede di annullarle, di chi denuncia la forza dell’oligopolio e pretende un monopolio o comunque di imporre un modello unico, sono reazioni figlie di una mentalità allergica alle novità e timorosa della distruzione creatrice, comoda nello status quo e consolata nel piccolo è bello.
E’ lo stesso atteggiamento che, in un altro ambito e più a sud, ha travolto Flavio Briatore. Mr Billionaire, che dalla prossima estate aprirà un nuovo locale a Otranto, in un evento pubblico con imprenditori e amministratori locali ha attaccato duramente il modello turistico pugliese e italiano in generale. Basta “masserie, casette, hotel a due e tre stelle, tutta roba che va bene per chi vuole spendere poco”, servono infrastrutture, porti, alberghi di lusso per attrarre gente con i soldi: “Ci sono persone che spendono 10-20 mila euro al giorno quando sono in vacanza, vogliono hotel extralusso, porti per i loro yacht e tanto divertimento”. E ancora: “Il turismo di cultura prende sempre una fascia bassa, mentre chi ha uno yacht da 70 metri spende 30 mila euro al giorno”, ha detto Briatore. Apriti cielo. “Non è questo il turismo che vogliamo, al Salento non servono i resort come quelli che hai costruito in Kenya”, gli hanno urlato dal pubblico. E ancora: “Stai facendo un discorso schifoso”, “il nostro patrimonio è la bellezza”. L’assessore regionale alle Attività produttive risponde: “Non autorizzeremo la costruzione di altre strutture sul mare”. Briatore punta “alla creazione di non-luoghi riservati all’accesso esclusivo di una élite economica”, “ben vengano strutture extralusso ma che siano dimore storiche, masserie a cinque stelle e anche resort ma ecocompatibili”, dicono i politici locali, per non parlare degli insulti piovuti dalla rete. Le parole di Briatore – contro la retorica del trullo – sono dure, forse ingenerose per una regione che negli ultimi anni ha fatto bene sul turismo, ma non è detto che non siano da stimolo anche per migliorare e per non rimanere intrappolati nella retorica del nanismo industriale.
La dimostrazione viene proprio da Torino. Dopo che è saltata la mediazione con Milano, la Appendino ha dichiarato: “Festeggeremo i trent’anni di storia, intorno a questo immagineremo un nuovo format, che rispetti la storia di una città e un passato che ha dato sempre valore al libro”. E la Fabbrica del libro, il polo concorrente milanese, ha già annunciato che farà un’altra manifestazione al sud. Three is meglio che one.