Il sindaco di Roma, Virginia Raggi, e il Capo di Gabinetto Daniele Frongia durante la conferenza stampa sulle Olimpiadi (LaPresse)

Roma sfregiata

Mario Sechi
Virginia Raggi, la sindaca, ha detto no ai Giochi Olimpici del 2024. Il piatto freddo è servito, la Capitale è raggiante, la folla idrofoba applaude. Perdinci, che sindaca, ha evitato la colata di cemento! Eccola, la riduzione della Capitale a distopia da cocomeraro all’Eur. Siamo all’inesorabile The End.

Virginia Raggi, la sindaca, ha detto no ai Giochi Olimpici a Roma. Il piatto freddo è servito, la Capitale è raggiante, la folla idrofoba applaude, è cominciata una nuova era di turbo-ecologismo, con i sorci che pasteggiano sui cassonetti della monnezza, la bio-diversità che cresce fiorente sui marciapiedi, la Suburra che accende i botti, gli storpi finti che camminano, i bibitari che offrono Coca e Fanta, i kebabbari che affilano il coltello, i posteggiatori che restano abusivi, i pizzardoni che restano in ufficio, gli imboscati dell’Atac nelle botole, quelli dell’Ama a stampare certificati medici per malattie fulminanti, gli ultra-produttivi dipendenti dei municipi a darsi di gomito giù al baretto, tutti in coro a cantare “Oh Virginia, salvatrice dell’Urbe”.

 

Perdinci, che sindaca, ha evitato la colata di cemento! E sì, caspita, ci sono ancora due miliardi di debiti delle Olimpiadi degli anni Sessanta! L’elevazione dell’ignoranza al potere produce danni permanenti, confondere migliaia con miliardi, sì tutto è possibile nella Roma dell’era a 5 stelle senza i 5 cerchi, e che vuoi che sia, in fondo non c’è neppure l’assessore al bilancio. Oh, ma arriverà, statene certi, come i due precedenti, una meraviglia. Avanti un altro. E conserviamola bene, Roma, mi raccomando. Con tutte le sue rovine, le sue strade linde, le sue solide infrastrutture che hanno bisogno solo di una tinteggiata e oplà, sarà tutto perfetto, funzionante come sempre, niente code, niente santi e devo uscire di casa ed è tutto allagato e dov’è finito il bus? Perbacco, non sciupiamola questa grande bellezza che ha solo bisogno di un po’ di mascara per far brillare ancora il suo sguardo, ammaliare, incantare, temprare lo spirito. Funziona, Roma, da quando i grillini sono saliti al potere. La giunta comunale è un rottame che galleggia, tra le risate e i pianti, le urla e i rutti, le bottiglie rotte sui sanpietrini e la sbornia da social network, ma non si può essere perfetti. E che bisogno c’era di incontrare Giovanni Malagò e il Coni, per dire, per motivare, per affrontare, per spiegare, per rispondere, per quel minimo di decenza che fa la differenza tra chi governa e il vuoto qualunquista. L’istituzione è un ferrovecchio.

 

Cosa dire ar popolo de Roma che tanto ha superato le invasioni barbariche, il Re e il Papa, Berlinguer e Andreotti? Niente. E la nazione, lo stato, il governo, il Parlamento? Via, sono soltanto una gigantesca scatoletta di tonno da aprire e buttare, cribbio, non contano nulla. Tutto si risolve in caciara su feissbuc, e daje Virgì, pernacchia collettiva, tifo sulla tribuna Monte Mario e suvvia le Olimpiadi… che assurda pretesa, che pazzia, che idea, meglio il grande raccordo delle biciclette (che hanno anche i raggi), la guerra al pilastro, al calcestruzzo, il no tronfio e slabbrato alla contemporaneità sfavillante di Milano, di Berlino, di Londra. E’ questa Roma? Sì, santi numi, è questo spettacolo di ciarlatani, Dibba e Di Maio, Lombardi e Taverna, che cosa volete di più? Lo diceva Ennio Flaiano in un suo criminale elenco toponomastico impaginato ne “La solitudine del satiro” che qui “tutto parla di misfatti, di fughe, di cattivi incontri, di calamità, di vendetta”. Con queste sagome novissime in sella al destriero di Marco Aurelio, Roma ora è una cavalcata di divise da operetta in uno sbrindellato circo di periferia, mentre la gente tracanna birra e sgranocchia noccioline, è un sottosopra accelerato, un autoscontro di senza patente, un concerto di clacson, un’adunata di pagliacci.

 

Parlare di politica, immaginare il futuro, condividere un’idea è impresa da ricovero coatto. So’ tutti palazzinari, so’ tutti contro la borgata verace, tramano contro er dipendente der Campidoglio che, si sa, è un fiore all’occhiello, complemento sartoriale pentastellato da esibire nei meet-up. Eccola, la riduzione della Capitale a distopia da cocomeraro all’Eur, un fenomeno nascente, un big bang di scie chimiche a cui faranno seguire esperimenti di nuova economia con il sesterzo elettronico, consultazioni referendarie sul Circo Massimo, ceneri e lapilli di like, roghi pubblici in piazza Farnese, nomine private e familiari, la decrescita (in)felice della produzione, la fuga dei capitali, la dipartita delle imprese per rabbia e disperazione, il metadone del rancore distribuito gratis come farmaco generico, l’allegra distruzione del lavoro e la sostituzione del feticcio retorico del cittadino con una massa di ineguali dal reddito minimi garantito.

 

Siamo all’inesorabile The End con i titoli di coda che scorrono martellati, sincopati, un sussulto, un singhiozzo con la sigla di “Profondo Rosso”, tra l’orrore, il grottesco, il clownesco, e poi ci sarà la fuga di notte dal pauperismo ignorante e il ritorno di giorno nel vaffadromo raggelante, lo spettacolo incendiario della plebe urlante tra i Fori imperiali, l’ingozzamento di menzogne della Bocca della Verità. Il dado è tratto, senza Cesare e senza Dio, senza Imperatore e senza Pontefice, si realizza, ora, l’onirica sperimentazione del delitto raccontata da Giorgio Manganelli in “Ti ucciderò, mia capitale”, il sogno dei sogni oscuri, la profezia dello smarrimento nel delitto, il desiderio ardente e irrefrenabile di finirla, la metafora urbanistica della dissoluzione: “La prima volta che cercai di ucciderla, pensai che dovesse essere per fuoco e ferro. Saccheggiarla come una città, scendere su di lei con ali di metallo, sganciare bombe inesatte ma largamente letali sulle vie, le piazze, le sedi dei partiti, i focolari, farla una distesa di cadaveri d’infanti, di donne, di vecchi”. Lo sfregio. Roma, questa giungla di marmo e mendicanti, questa splendida miseria, è finalmente giunta allo stato tribale, alla sua ultima violenta trasformazione. Spegnete la luce, e l’ultimo chiuda la porta.