“Uno dei miei più antichi corrispondenti, di destra, una volta mi ha scritto così: ‘Mi spieghi perché non ti piace il web? Internet è puro comunismo. Merda gratis per tutti’”

A tu per tu

Io, la sinistra, Grillo, i cretini. A pranzo con Michele Serra

Salvatore Merlo

Giornali, politica, satira e vaffa. “La mia lotta è non diventare cinico. Uno è moralista da giovane, poi diventa disilluso, infine rischia di diventare cinico”.

E le parole “mio mondo e mio partito” forse un po’ gli bruciano in gola. “Non ci siamo più”, dice con una malinconica ironia. Estinti: come il bue primigenio, come il ghiro gigante di Minorca, come la tigre del Caspio. “E pure ognuno di questi pareva inestirpabile”. Qualche fossile ancora riemerge, tuttavia, qua e là. “Ma bisogna avere l’umiltà di accettare le cose nuove, anche quelle che non ti prevedono”. Come Matteo Renzi? “Mi capita di ricevere missive irose dei miei lettori: ‘Ah, ma come fai?’, ‘Questo orribile provinciale fiorentino…’, ‘Bisogna fare qualcosa…’. Ecco, io invece penso che non dobbiamo rompere i coglioni. Se la nostra sinistra diventa una mummia, noi possiamo anche diventare delle mummie noi stessi, ma non possiamo mica pretendere che anche tutto il resto del mondo si mummifichi”.

 

E a questo punto lo sguardo fisso, che prima somigliava a un pugno chiuso, si scioglie in un ridere degli occhi, “bisogna avere uno sguardo non stupidamente arreso, ma nemmeno accigliato e corroso dal catastrofismo”. Così abbassa il tono di voce, stringe le palpebre, prende una voce non sua, che potrebbe essere quella dell’avaro di Moliére, o la caricatura fumettistica di un vecchio pessimista: “Ahhh, il mondo è diventato una merda! Non c’è più Berlinguer… Che palle!”. Ride, Michele Serra, con occhi che colgono senza riguardi il paradosso delle situazioni, e la comicità. Anche amara. E forse un po’ evoca “i compagni” volenterosi e tristi di Mario Monicelli, quei pasticcioni sconfitti e dolenti della commedia. “La mia famiglia d’origine ha perso”, dice, “ma il mondo continua anche senza di me”. E insomma esprime lo smarrimento dell’uomo di sinistra, la cui simmetria dei principi è stata scompigliata da un vento che spira da regioni che forse lui in tutta innocenza credeva non esistessero, fino a ieri, o fino all’altro ieri, o comunque fino all’incrinarsi delle certezze di un mondo al quale sente d’essere appartenuto – di appartenere? – “non solo da militante, ma da funzionario”.

 

Strano dove le nostre passioni ci conducono, incalzandoci sferzanti, costringendoci a sogni indesiderati, a destini malaccetti. “Alle primarie votai Bersani. Poi mi sono pentito. A un certo punto mi sono accorto che votavo Bersani perché in realtà votavo per me stesso, mentre avrei dovuto votare contro me stesso, cioè avrei dovuto votare per Renzi”. In una delle sue rubriche, in un’Amaca, qualche settimana fa, aveva scritto: “Piuttosto che essere governato da uno come Di Maio, che non sa niente ma se la tira come se sapesse tutto, sopporto, anche se non la supporto, Maria Elena Boschi”. Che ti ha fatto la Boschi? “Niente”, risponde lui, con il suo sorriso arabo. “Mi sembra volenterosa… in Italia ci sono due modelli di quarantenne, quello renziano e quello grillino. Almeno quelli come la Boschi provano a dare un’impronta, a fare qualcosa”. I bamboccioni che il ministro Padoa Schioppa esortava a lasciare la casa genitoriale l’hanno fatto. “E invece cosa abbiamo fatto noi sessantenni di sinistra per dire di ‘no’?”. Ecco. Al referendum come voti? “Io voto per il ‘sì’, anche se vincerà il ‘no’. E vincerà il ‘no’ perché l’aria che tira è quella del disfacimento. E poi guardati intorno: mezzo Pd vota ‘no’, la destra vota ‘no’, la sinistra vota ‘no’, i grillini votano ‘no’…”.

 

Il Naviglio Grande è nitido, largo e lindo, sembra la guancia ben rasata di Milano (mi dirà “Lui” tra poco: “Tutta questa zona aveva un suo fascino anche prima, ma un fascino malinconico, mentre adesso è un luogo allegro”).

 

La mattina è stata ansimante e boccheggiante, con scrosci di pioggia a tratti torrenziale. Da qualche minuto un sole malaticcio ravviva il cielo bianco, mentre dall’imboccatura di porta Ticinese ecco arrivare, dondolando appena, un signore dall’aria pensosa, ma allegra: pantaloni marroni, camicia chiara, una ciocca di capelli spettinata, e brizzolata, un filo di barba. E’ lui, Michele Serra. “Hai visto, ci sono i pesci nel Naviglio”, dice, indicando quelle acque che non sono più “perplesse”, come le descriveva Giuseppe Marotta negli anni Sessanta, ma che dopo il grande recupero dell’Expo hanno assunto un tocco attraente, adesso sembrano raccontare favole levigate. “Qui i sindaci sono stati bravi, anche quelli di destra. Ma soprattutto è stato bravo Giuliano Pisapia, che se volesse potrebbe diventare il vero avversario di Renzi… Solo adesso Milano palpita davvero di vita, di vita civile e di bellezza, quella stessa città che fu lugubre quando ero ragazzo e che invece mi scorreva attorno così estranea e rampante negli anni Ottanta”.

 

E la città lugubre era quella in cui si spaccavano teste a sprangate, la città che negli Anni di piombo subiva attonita la bomba di Piazza Fontana, la violenza ideologica e il terrorismo. “In via Scaldasole frequentavo un circolo anarchico, del Movimento socialista libertario. Andavo lì con tre amici di scuola, Mario Ferrandi, Guido Salvini, ed Enrico Mentana. Il primo è finito all’ergastolo per terrorismo, il secondo è il giudice che ha riaperto le indagini su Piazza Fontana, il terzo è il direttore del Tg di La7. Pensa un po’”.

 

La città che invece gli scorreva estranea, era la Milano di Bettino Craxi, quella da bere. Lo disprezzavi Craxi? “Lo consideravo un nemico. Credevo che avesse ragione Berlinguer, e lui torto. Ero abbastanza comunista, e abbastanza moralista”. A un certo punto però, qualsiasi cosa si faccia, le carte dei motivi e delle conseguenze si imbrogliano maledettamente, e quando gli anni passano nessuno sa più se ha agito bene o male. “Era facile essere moralisti all’epoca, forse c’erano anche delle esagerazioni, ma il sacco della città ci fu davvero. C’era un ceto emergente e spregiudicato, odioso”.

 

Dunque il Pci, la militanza, un intrico di pulsioni e intenzioni risalenti a tempi immemorabili ormai informi, forse senza scopo. “Entrai nel partito credo a diciotto anni, sezione ‘martiri di Modena’, in via Caccialepori. Entrai per autodifesa, forse anche per paura. Era il ’73 o il ’74 e la gente si apriva la testa a bastonate. Poi un giorno un mio amico andò a fare il militare e mi disse: ‘Vuoi il mio lavoro?’. E che fai? ‘Faccio il dimafonista all’Unità’”. Cioè lo sbarbatello al quale gli inviati dettavano i pezzi al telefono. “Così presi una vecchia Olivetti Lettera 22 di mia madre e mi esercitai nella dattilografia, ero imbranato ovviamente, ma dissi a quelli dell’Unità che ero un professionista. Mi presero. Facevo le notti. A quei tempi i giornali rombavano, erano fabbriche: la colata a piombo, la linotype, gli odori. I tipografi erano individui neri, inchiostrati, che bevevano latte per combattere l’avvelenamento da piombo (ma più spesso bevevano Campari Soda). Era vera classe operaia. Si parlava solo dialetto milanese, che per me, io che venivo da una famiglia borghese, era come una porta sbattuta in faccia, un fragoroso abbassarsi di saracinesca, dovevo farmelo tradurre”.

 

Poi lentamente il passaggio alla scrittura, al giornalismo. Supremo, prezioso dilettantismo o capriccio. Almeno all’inizio. “Adesso sono venticinque anni che scrivo tutti i giorni. Una follia, un’ossessione. Ho scritto su Panorama, l’Espresso, Repubblica, Telesette, il Monello, l’Illustrazione italiana… Chissà quante stronzate ho scritto!”. Ricordane qualcuna, dai. “Per fortuna mi dimentico tutto, e per fortuna la carta va al macero”. C’è internet, ti avverto. “Ma mi hanno spiegato che per fortuna anche le memorie elettroniche hanno una loro obsolescenza”. Sì, ma credo di millenni. “Cazzo!”.

 

Giornalista, sbarbatello, squattrinato. Tuo padre – “era un vecchio liberale che lavorava in banca, al Banco di Roma” – non ti considerava un vagabondo, un perdigiorno, che faceva il giornalista? “Era un uomo pragmatico, guadagnavo qualcosa ed era contento così. E fuori c’era l’inferno, si sparava. Con mia madre invece, di destra e cattolica, era diverso… Era una lettrice di Gianna Preda e del Borghese, era una che scriveva lettere al re in esilio a Cascais. Alla fine dei suoi giorni divenne persino berlusconiana”. Tua madre era berlusconiana? Impossibile. “Eccome, no. Diceva: ‘Finalmente con Berlusconi buttiamo a mare i comunisti’”. E tu? “E io le dicevo: ‘Guarda, mamma, che tra questo burino e il re a Cascais c’è una bella differenza’. Mio padre invece, che votava Malagodi, quando vedeva Berlusconi in televisione inveiva”.

 

E a questo punto Serra racconta un episodio abbastanza comico. “Una volta Montanelli venne a Sanremo, dove allora abitavano i miei genitori. In casa mia c’era il mito di Montanelli, di Montanelli e di Ricciardetto, pseudonimo di Augusto Guerriero, un giornalista molto conservatore la cui risposta tipo ai lettori, su Epoca, era: ‘Lei è un cretino’. E insomma un giorno arriva Montanelli per un incontro pubblico, e allora mia madre ovviamente ci va. Si avvicina a Montanelli, lo ferma, erano gli anni in cui io cominciavo a farmi notare sull’Unità: ‘Sono la mamma di Michele Serra’, dice allo spilungone accigliato. E lui: ‘E con ciò?’. E lei: ‘Ma è comunista! Che devo fare?’. Ecco, questo siparietto me lo raccontò il vecchio Montanelli, moltissimi anni dopo, e ancora rideva”.

 

Ma a te Montanelli non piaceva. “Il mio modello giovanile era Fortebraccio, uno che lasciò la Dc e aderì al Pci per questioni di stile. Era asciutto, fazioso, feroce ed elegante. E poi Stefano Benni, con i suoi corsivi sul Manifesto. Quando ero ragazzo per noi Montanelli era un fascista. E ovviamente non capivo niente, ma l’età è una scusante. Una volta lo feci oggetto di un articolo di satira, dove lo prendevo in giro, lo facevo parlare come un vecchio conservatore polveroso e fuori dal tempo, forse anche un po’ rimbambito. Così un giorno mi squilla il telefono, in redazione. Voce imperiosa: ‘Pronto, sono Montanelli!’. Sospensivo imbarazzo. Poi, ridendo: ‘Ma tu come fai a sapere che il Totocalcio io lo chiamo ‘Sisal’, e il frigorifero lo chiamo ‘frigidaire?’”. E allora io, alquanto sollevato: ‘Lo so perché anche mio padre e mia madre parlano così’. Da allora diventammo amici. Per un po’ ci siamo anche frequentati. Così quando Montanelli ruppe con Berlusconi e lasciò il Giornale, Walter Veltroni, che dirigeva l’Unità, mi disse: ‘Montanelli viene alla festa dell’Unità di Modena. Devi andarlo a prendere e moderare il dibattito’. Mi ritrovai in questa incredibile bolgia, a Modena. Montanelli era emozionatissimo: stava in mezzo ai comunisti, in mezzo ai nemici di una vita, che invece di fischiarlo lo abbracciavano. Ricordo che passammo con questo vegliardo, elegante e altissimo, tra due ali di folla che lo applaudiva. Fu una cosa un po’ edipica, per me. Era il mito di mia madre, ma anche una persona che io avevo già accettato da tempo e che ora veniva accettata dal mio mondo e dal mio partito”.

 

Il suo “mondo” e il suo “partito”, rieccoli. L’atmosfera spirituale di un’epoca forse trova la sua massima espressione non negli avvenimenti ufficiali, ma nei piccoli episodi personali. Una volta Maurizio Ferrara, direttore dell’Unità, deputato e dirigente del Pci, il papà di Giuliano, disse che Serra era il “capo del partito trasversale delle teste di cazzo”. Allora ricordo questa definizione a Serra, mentre ci siamo accomodati in un ristorante spalancato sul Naviglio e mentre lui continua a becchettare il prosciutto e melone, con gesti precisi, sorridendo e parlando. “Credo avesse ragione Maurizio Ferrara. Erano anni in cui c’era uno scontro forte tra la destra e la sinistra comunista, io ero ingraiano e Ferrara era amendoliano. E poiché ero anche irrequieto e movimentista, avevo preso, oltre a quella del Pci, anche la tessera dei Radicali, dei Verdi e degli antiproibizionisti. Insomma, forse, ‘partito trasversale delle teste di cazzo’ era giusto”.

 

E com’erano i comunisti romani rispetto ai milanesi? “Erano romani. Dunque spiritosi, talvolta grevi. Scanzonati. Antonello Trombadori scriveva dei sonetti in romanesco, ispirati a Gioachino Belli. Una volta pubblicai degli apocrifi di questi sonetti, su Tango, la rivista satirica che dirigeva Sergio Staino, allegata all’Unità. Erano volgarissimi. Trombadori un po’ s’incazzò e un po’ rideva”.

 

Giuliano Ferrara ti ha chiamato “umoralista”, invece, che ne dici? “E’ una definizione che non mi dispiace. Umore e umorismo appartengono alla stessa origine semantica”. Forse però ti dava anche del moralista, in realtà. “La mia lotta adesso è non diventare cinico. Uno è moralista da giovane, poi diventa disilluso, infine rischia di diventare cinico”.

 

Allora adesso sei disilluso? “Non proprio. Ora ho il senso del relativo. Faccio i conti con l’imperfezione, la mia e quella del mondo”. E dunque sei in grado di accettare Renzi, la nuova sinistra. “Tento di non farmi imprigionare dalla mia biografia”. E Massimo D’Alema invece? “Il suo è un rancore generazionale. Fa il vino… è così bello… faccia quello… anche io ho una campagna… ma capisco che lasciare la politica è difficile”. Però Walter Veltroni ha lasciato, senza strascichi di rancore, almeno evidenti. “Veltroni è diverso. Forse conta il carattere. Mollare è difficile. Ma è un passaggio che capita a tutti. Bisogna prepararsi a queste cose, credo. Il momento prima o poi arriva, e se non hai altre risorse sono cazzi. Perché non te ne fai una ragione”. C’è quella canzone di Jacques Brel… com’è che fa? “Ci vuole del talento / per invecchiare senza diventare adulti”. Ecco.

 

E certo forse fa impressione la sfrontatezza giovanile di Renzi, ma in fondo non è molto differente da quella che, ciclicamente, dice Serra, si ripropone quando si cambia generazione, quando il vecchio inevitabilmente s’apparta (o più spesso viene fatto appartare). “Questi ragazzi un po’ garbatamente innovano e un po’ sgarbatamente forzano. Ma ci sono, e fanno. La legge Cirinnà è passata”. Bastava vedere il banco del governo, quando si compose, per la prima fiducia parlamentare, nel 2014: carte e smartphone e tablet e chincaglieria varia, che preciso preciso faceva venire in mente la cameretta del figlio “sdraiato” di Serra, quello del romanzo.

 

[“a proposito, lo sai che è stato tradotto in polacco? Il mese scorso ha superato le quattrocentomila copie vendute”].

 

Qualche anno fa Serra diceva così: “Certe cose che dice Grillo sono sacrosante, e la sua non è antipolitica”. Ma lo pensi ancora? “Lo penso sempre, e penso che ‘antipolitica’ sia una definizione di comodo. E’ una scorciatoia. Grillo fa politica. Quanto al giudizio sul Movimento cinque stelle, ciò di cui diffido è quella patina lugubre che si diffonde dai volti delle persone. Le sedizioni hanno sempre avuto ospitalità nella storia. Ma lo sguardo sospettoso, meschino, non lo sopporto. Per fare le rivoluzioni, e per fare politica, ci vuole generosità. E invece questi del Movimento cinque stelle hanno una visione gretta delle cose: il mondo visto come una gigantesca macchinazione di certa gente per fottere altra gente. Nella vita viene premiata la generosità, a volte persino l’ingenuità, la grettezza mai”.

 

Nel 1990 hai scritto uno spettacolo per Grillo, si chiamava “Buone notizie”. Siete amici? “Siamo stati molto amici, ho lavorato con lui per cinque anni. Quello era uno spettacolo tutto sull’informazione, sui giornali, i media… Mai avrei pensato che quelle cose potessero diventare programma politico”. Sei colpevole anche di questo? Serra ride. “Scrivevo satira, che sta su tutto un altro piano rispetto alla politica. Sono cose diverse: il linguaggio, il pubblico, il fine che ti proponi. Io già mi preoccupavo quando Sabina Guzzanti faceva questa confusione. Non si capisce più niente: stai facendo un comizio o mi fai pagare un biglietto? E il mio, guarda, è un rilievo tecnico”.

 

Il “vaffanculo” come programma di governo, insomma. C’è una grammatica deviata che rimanda ad altri tempi, quasi senza memoria, a mondi di pensatori gretti e di babbuini in stivaloni militari? “Capisco che il momento storico sia assai confuso, ma insomma, ‘vaffanculo’ nella satira va bene, però se diventa programma politico è insignificante, non vuol dire nulla, un po’ inquieta”. Se dici “vaffanculo” puoi anche pensare che Pinochet fosse in Venezuela, e non in Cile, chi se ne importa: tanto con vaffanculo hai spiegato tutto. “L’unica cosa per la quale mi sento vecchio è quando dico che c’è un arretramento culturale forte. E generalizzato. Che sdogana un po’ tutto e un po’ tutti. E’ un dato qualitativo, non quantitativo. Nel Pci ho conosciuto contadini che erano colti, nel senso che sapevano collegare la loro condizione di subalternità al fatto che sapevano poco e dunque volevano mandare i figli all’università. Io in questo rimango vecchio ex comunista. L’idea che l’ignoranza fosse qualcosa da cui emendarsi era tutto: il Pci era la favola, l’apologo di Di Vittorio che a dodici anni studia il dizionario della lingua italiana a memoria”.

 

[Lampo ironico: “Mi rendo conto che ti sto facendo un discorso da Frattocchie, da scuola di partito”]

 

E Serra sta all’incirca dicendo che esiste una differenza oggettiva tra Norberto Bobbio e Matteo Salvini, par di capire. “Una volta un leghista, Speroni, al termine di una trasmissione, e spente le telecamere, mi disse: ‘Si ricordi che io sono maleducato perché rappresento elettori maleducati. E’ la democrazia’. Ecco, Speroni aveva ragione. Però anche io ho ragione se dico che Hegel e Carlo Sibilia non sono precisamente uguali. Sibilia è l’ignoranza rivendicata, quella che individua ogni professionalità, anzi la tecnica in sé come ‘casta’. La frustrazione sociale è fisiologica, però bisogna governarla, individuare dei percorsi… Io ho conosciuto operai del Pci che erano dei prìncipi: aplomb e dignità. Erano classe dirigente. Non riesco a credere a una classe dirigente che pensa che la mediocrità possa sostituirsi all’eccellenza, persino all’eccellenza castale. Nel Pci la rabbia, che è benzina del mondo, stava dentro una cultura, una gerarchia e un ordine dove ‘sapere’ e ‘saper fare’ contavano”.

 

E qui, con fraseggio godurioso, mentre arriva un risotto alla milanese, Michele Serra comincia a parlare con l’accento di Genova: sta imitando Beppe Grillo. E’ identico: “’Lascia stare, belìn… l’idraulico te lo vuole solo mettere nel culo… Dai retta a me… C’è il cugino del cognato di mia moglie che non è idraulico, e dunque ti sa riparare i tubi molto meglio…’. Questa è la filosofia di Grillo”, dice Serra. “E’ un modo di pensare che interpreta la più generale crisi della delega, cioè quell’idea piuttosto normale secondo la quale tu affidi a dei professionisti le mansioni che non sei ovviamente in grado di svolgere da solo. Grillo la ribalta: i tecnici ti vogliono solo fottere, stai attento. Il Movimento cinque stelle nasce così: nessuno si fida più di nessuno. Specialmente non ci si fida di quelli che hanno un sapere tecnico di qualche genere. Prendi questa frase Grillo: ‘Tutto quello che scrivono i giornali è falso’. E insomma il cittadino, bordeggiando bordeggiando, secondo lui si informa da solo sul web… Ma che cazzo stai dicendo?”.

 

Intanto i giornali non li comprano. Dieci anni fa Repubblica e Corriere viaggiavano intorno al milione di copie, oggi saranno poco più di duecentomila. “Perché c’è internet, ma anche perché in Italia i quotidiani sono oggettivamente bruttini. Gli editori hanno deciso che i giornali non li fanno i giornalisti ma i manager e gli uffici marketing. E poi una volta il quotidiano era identitario, la gente lo teneva sotto braccio per farlo vedere”. E adesso? “Io penso che i giornali, alla fine, diventeranno come i sigari cubani. Pochi, e spero buoni. Per pochi. Tutti gli altri si informeranno sul web. Uno dei miei più antichi corrispondenti, uno che mi scrive da anni delle lettere, e che è di destra, una volta mi ha scritto così: ‘Mi spieghi perché non ti piace il web? Internet è puro comunismo. Merda gratis per tutti’”.

 

Sono in tanti a scriverti? “Ho una decina di corrispondenti affezionati. Con quasi tutti era iniziata con uno scontro, ma se poi le fai ragionare le persone cambiano tono”. E quando ti insultano? “Me ne infischio. Non rispondo, e ti assicuro che nemmeno mi arrabbio più. E’ come un rumore di fondo. Gli imbecilli, i mediocri, i poveretti… c’è di meglio da fare che andargli dietro”. C’è molta violenza verbale in giro. “C’è malanimo, frustrazione, sembriamo una società abbastanza infelice. Poco serena. Ci tocca. E’ così. La cifra costante della società di massa è la mediocrità”. Lo penso anche io, ma non è una cosa un po’ snob da dire? “Guarda, oggi va così. Se uno tira una scorreggia e tu glielo fai notare, quello è capace che ti risponde: ‘Ehhh, quanto sei snob!’. Io non mi sento snob, anzi credo proprio di essere il contrario, sono pop semmai. Niente è più snob di pensare che la massa meriti la merda. Anche otto milioni di mosche possono avere torto a convergere su un escremento. Se poi magari gli fai vedere che c’è anche dell’altro, che c’è una cosa che si chiama cioccolata, che è fatta con il cacao, che è buona… chissà magari li convinci. Questo significa essere snob?”.

 

A proposito di mosche: ce ne sono un paio che si avvicinano al nostro tavolo ormai vuoto di vivande, ma se ne vanno subito, con un brivido d’ali che esprime delusione. “Ti accompagno al taxi”, dice Serra, che intanto stabilisce che il conto lo paga lui (solo che invece di firmare la ricevuta della carta di credito, firma lo scontrino fiscale. Poi per un pelo non lascia anche la carta di credito alla cassa). Ma è vero che ti sei messo a produrre profumi, “Serra e Fonseca?”. E lui, con un sorriso arabo: “Fa tutto mia moglie. Io sono tifosissimo suo, ma non sono nemmeno socio. Tuttavia, guardandola, ho capito una cosa, e cioè che fare impresa in Italia è difficilissimo. Metà del tempo che uno dovrebbe impegnare per il prodotto, te lo toglie la burocrazia”. Non è che diventi di destra? Berlusconi sarebbe d’accordo. “Ma anche Renzi”.

 

La collana “A tu per tu” di Salvatore Merlo ha ospitato finora Ferruccio de Bortoli (19 febbraio 2014), Ezio Mauro (22 febbraio 2014), Giancarlo Leone (1° marzo 2014), Flavio Briatore (7 marzo 2014), Fedele Confalonieri (15 marzo 2014), Giovanni Minoli (29 marzo 2014), Luca di Montezemolo (3 aprile 2014), Urbano Cairo (10 maggio 2014), Claudio Lotito (2 luglio 2014), Giovanni Malagò (26 luglio 2014), Beppe Caschetto (9 ottobre 2014), Bruno Vespa (29 novembre 2014), Vincino (10 gennaio 2015), Marco Carrai (13 febbraio 2015), Ettore Bernabei (17 marzo 2015), Umberto Bossi (5 aprile 2015), Paolo Del Debbio (8 settembre 2015), Simona Ercolani (2 ottobre 2015), Raffaele Cantone (1 febbraio) e Milo Manara (18 febbraio), Francesco Paolo Tronca (26 febbraio 2016), Raffaele La Capria (11 marzo 2016), Carlo De Benedetti (4 giugno), Federico Pizzarotti (10 settembre)

  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi universitaria in Inghilterra. Ho vinto alcuni dei principali premi giornalistici italiani, tra cui il Premiolino (2023) e il premio Biagio Agnes (2024) per la carta stampata. Giornalista parlamentare, responsabile del servizio politico e del sito web, lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.