L'Italia con il tic del “no” ci condanna alla decrescita come modello di vita
Che vuole dire Renzi quando afferma che “i grillini sbagliano a dire no alle Olimpiadi ma io non ricorrerò contro questa decisione”? Ricorra, se è il caso. A ogni modo emerga il prezzo che stiamo pagando a questa Italia col tic del no. Che è diventato uno stato d’animo, un modo di essere, un’abitudine, un paradigma, un comportamento obbligato, pavloviano, meccanico, automatico.
I Cinque stelle sono solo parte di questa Italia pavloviana, ghiacciata nell’ossequio delle “cose come stanno”, che vegeta nella stasi, nel paese che ristagna, illudendosi che se non cresce il pil crescono i voti: è il populismo come grammatica della stagnazione. I grillini, coi loro no, rappresentano oggi l’avanguardia di un esercito triste: la quasi totalità dei sedicenti ambientalisti, una fetta consistente di sinistra antica, burocratica e opportunista, la destra populista e s-fascista. E’ l’Italia paralizzata e paralizzante che confonde l’opposizione con il divieto del cambiamento, di ogni opera, riforma, realizzazione. Curiosamente: per dire no alle Olimpiadi i grillini hanno dismesso, per qualche ora, il mantra dell’anti austerity e rispolverato improbabili abiti einaudiani con l’argomento “non vogliamo, con le Olimpiadi, aumentare i debiti”. Dolorosa manifestazione di incompetenza economica. Chi ha stabilito che le opere saranno a debito? Da quale conto economico si evince il lascito di un debito? Ci fornite dati e numeri? E che cos’è un debito quando si parla di opere pubbliche?
Per un liberale, nel bilancio pubblico, non è il debito l’errore bensì come questo si ripaga: se generando reddito che ne consente il servizio o attraverso spesa pubblica futura che fa avvitare il debito. Costruire una piscina che serve un pubblico che paga genera reddito che ripaga il debito. E se il progetto gira può farsi carico di esso un operatore privato senza vincolare la spesa pubblica. I debiti sbagliati, direbbe il professor Giavazzi, sono quelli ripagati all’opposto dalla spesa pubblica che generano altro debito futuro. Ad esempio, il demagogico “reddito di cittadinanza” proposto dai Cinque stelle – un sussidio a perdere – è all’opposto debito vizioso da evitare: non genera crescita e dilapida risorse eternizzando il debito.
Le contestazioni nell'aprile 2015 a Mantova da parte di Movimento 5 Stelle, ai No Tav e altri gruppi antagonisti (foto LaPresse)
L’altro refrain del no grillino alle Olimpiadi è il consueto “no alla colata di cemento”. Anche qui: è diventato un riflesso scontato il no al cemento (ma anche al ferro, alla plastica, ecc.): un motivo ostativo senza ulteriori specificazioni, senza dire che ci fai, cosa ci fai, dove lo metti. Il “no al cemento” libera da ogni obbligo e responsabilità di informazione su elenco e natura delle opere, valutazione del costo-beneficio, conto economico, imput di efficacia. E’ il cemento in sé il mostro. Come lo è ogni cosa o materiale che scuota l’economia stagnante e faccia girare la giostra della crescita. La verità è che per i grillini e un’antica sinistra in crisi di astinenza da antagonismo, l’anti austerity serve a sproloquiare contro l’euro, Francoforte, Bruxelles e la Germania. Ma l’austerità come stile della decrescita è, per questi antagonisti a tempo perso, modello di vita e sostanza economica e sociale. Per i liberali l’austerità è solo un modo – temporaneo e contingente – per correggere i conti pubblici e liberare risorse per la crescita. Per i nipotini di Piketty e Fitoussi è, al contrario, stile di vita, orrore della ricchezza, proposta di infelicità. E che c’è di più felice di 15 giorni di Olimpiadi? Questa Italia del no ha scoperto l’antiausterità e il keynesismo e di essi si riempie la bocca. Ma è un abito posticcio. Del keynesismo vero manca loro lo slancio, l’attivismo shumpeteriano, l’operosità capitalistica , la benzina della crescita. L’antiausterità fatta ideologia si trasforma, invece, in stagnazione e mito di infelicità. E contemplazione della povertà.
Negare al paese – senza ragioni concrete e verificate (come erano, invece, quelle di Monti nell’Italia dello spread e del collasso monetario del 2012) – lo spettacolo di un’Olimpiade è un pegno di povertà. E infine: qui viene derubricata una grande opera nazionale con un tratto di penna e un’annuncio. Il sindaco della capitale cancella un’opera strategica senza dibattito pubblico: dopo una telefonata del leader e con una conferenza stampa mentre i proponenti dell’opera (i dirigenti dello sport italiano) attendono di spiegare conti e progetti dell’opera tenuti, in vana attesa, nel salottino del sindaco. Surreale. Questa vicenda risolleva uno dei temi referendari: come si decide su opere strategiche? Oggi esiste una disimmetria decisionale evidente: un autentico esproprio del potere centrale a vantaggio di elitismi locali. E’ l’enorme Nimby nazionale. Che ci sta uccidendo. E’ il prezzo che paghiamo non solo all’ambientalismo egoistico e conservatore ma ad un quindicennio di retorica federalista. Non è ammissibile che, su un’opera di grande portata come un’ Olimpiade, vi sia una tale espropriazione dell’interesse nazionale. Aggravata, nel caso grillino, da un’evaporazione degli stessi meccanismi di decisione locale – Consiglio comunale, organismi regionali, platea degli stakeholders – affogati dalla spettacolarità della decisione mediatica e dal potere, oscuro ed evanescente, della consultazione della rete. Davvero il conservatorismo costituzionale e la sinistra del no non hanno nulla da dire su questa deriva e questo scempio degenere del “dibattito pubblico”? Ci dica qualcosa, professor Zagrebelsky!