Vincenzo De Luca (foto LaPresse)

Lo scandalo del caso De Luca

Giuliano Ferrara
Non solo Rosy Bindi. L’assoluzione del governatore della Campania è una lezione per chi cerca di trasformare le istituzioni democratiche in una ghigliottina per le teste dei politici avversi. E ora forza con i francobolli - di Giuliano Ferrara

Vincenzo De Luca assolto perché il fatto non sussiste. A due giorni dalle elezioni la sua avversaria interna del Pd, e presidente dell’Antimafia, Rosy Bindi, lo aveva inserito in una lista nera di “impresentabili”. Glielo consentiva una legge scema, che affida alle ombre giudiziarie il giudizio antipolitico sulla politica, sicché una stessa persona pubblica può essere legittimamente candidabile e moralisticamente impresentabile con il bollino di una commissione parlamentare. Una sconcezza di sistema, una gogna di stato. La Bindi, brava donna affetta dal morbo del fanatismo e da una estrema tendenza al facinoroso, ci diede dentro e favorì l’interpretazione estrema. Le carte dicevano: un sindaco operoso e capace, politico coraggioso, aveva fatto pressione per salvare il posto di lavoro di molti dipendenti dell’Ideal Standard, il caso Sea Park, e nelle segrete curve della pubblica accusa che è spesso, troppo spesso, coinvolta in accertamenti e ipotesi esposte a fenomeni di politicizzazione, questo era bastato per imbastire un processone per associazione per delinquere e molto altro. La cosa andava valutata con discernimento, in un paese dove la violenza gratuita, arbitraria, del giudiziario contro la personalità politica di riferimento è purtroppo da anni prassi diffusa. Invece no. La presidente dell’Antimafia si levò il gusto di trattare il futuro presidente della regione Campania, poi eletto anche come campione di una fase politica che la Bindi aborre, alla stregua di un mezzo delinquente, malgrado nessuna sentenza indicasse questa circostanza in modo chiaro e garantito. Era un boccone prelibato nell’ambito anche della campagna sleale contro il governo Renzi.

 

La stampa scritta e televisiva aveva seguito la cosa con il consueto accento ripulitore. Aveva coperto De Luca di vergogna, di sospetto, mettendo lui, la sua squadra e il suo partito in clamoroso imbarazzo. Non furono risparmiati aggettivi, e le luci dei riflettori inquadrarono un candidato che a 48 ore dalle elezioni doveva essere fatto a pezzi. Character assassination: i giornalisti sanno come uccidere. E nell’Italia d’oggi praticano questa attività con capacità selettiva di grana fine. Abbattere un politico di razza che non aveva mai risparmiato ai media le sue battute corrosive, che non mostrava alcuna paura, che reagì con veemenza e puntualità alla circostanza in cui pagine e pagine di giornali e telegiornali lo avevano messo, sulla scorta del decreto di impresentabilità firmato Bindi, era più che una tentazione, era un piacere sensuale. Ora “il fatto non sussiste”. E la cosa viene trattata alla stregua di una rettifica, di un francobollo in pagina interna, di una notizia televisiva senza commento, mentre un’altra vittima della gogna di stato e mediatica, Ilaria Capua, lascia la Camera di appartenenza per restituirsi al lavoro, al privato, schifata del tritacarne mediatico-giudiziario.

 

De Luca è forse l’ultimo uomo di partito in senso classico. Uomo di organizzazione e di popolo, uno che ha scavalcato barriere mestatorie come queste, elevate contro di lui, in modo brillante, rieletto come fu alla guida della sua regione dopo aver governato con mano sapiente e ferma la città di Salerno di cui era sindaco. Ha una sua naturale rozzezza, ma non si richiede a un leader il tratto dello snobismo o della mansuetudine affettata. E’ suo il conio di battute leggendarie contro bamboline e mezze pippe, causticità intrisa di logica di combattimento e di senso del costume politico nazionale nell’ora del dilettantismo più inidoneo e feroce. La Bindi è invece l’effetto di una trasformazione genetica della vita pubblica italiana: cominciò a moralizzare il paese sulla scorta delle inchieste di Tonino Di Pietro, oggi debitore di rimborsi elettorali e variamente sputtanato, fino all’esaurimento di una vecchia e risibile carica propulsiva, e si trasformò in un prototipo dell’antipartito, dell’antipolitica, cercando di trasformare le istituzioni democratiche in una potenziale ghigliottina per le teste dei politici avversi. Sarebbe il momento giusto, per una come lei, e per il corteggio di adoratori dell’idolo antimafioso, che pullulano nel sistema della disinformazione di massa, per una riflessione e una critica senza indulgenze su quanto accaduto. Ma non succederà. Scandalosamente, finora non è mai successo.

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  • Giuliano Ferrara Fondatore
  • "Ferrara, Giuliano. Nato a Roma il 7 gennaio del ’52 da genitori iscritti al partito comunista dal ’42, partigiani combattenti senza orgogli luciferini né retoriche combattentistiche. Famiglia di tradizioni liberali per parte di padre, il nonno Mario era un noto avvocato e pubblicista (editorialista del Mondo di Mario Pannunzio e del Corriere della Sera) che difese gli antifascisti davanti al Tribunale Speciale per la sicurezza dello Stato.