Il declino dei sindacati, dal salario alla “pensione variabile indipendente”
I sedicenti rappresentanti dei lavoratori hanno smesso di fare la lotta di classe contro i “padroni” che pagavano lo stipendio per farla contro i lavoratori più giovani su cui preme la pressione contributiva più alta del mondo.
Roma. E’ stata la settimana dell’accordo del governo con i sindacati sulle pensioni: un pacchetto da 6 miliardi di euro in tre anni per “favorire l’equità sociale, aumentare la flessibilità delle scelte individuali, eliminare gli ostacoli alla mobilità lavorativa e sostenere i redditi da pensione più bassi”. Aumento delle detrazioni, aumento della quattordicesima per 1,2 milioni di pensionati, anticipo pensionistico agevolato (Ape). Due miliardi di euro in più ogni anno che, a parte il mancato aumento delle tasse previsto dalle clausole di salvaguardia, rappresentano il pezzo forte della prossima legge di Stabilità e vanno a ingrossare una spesa previdenziale tra le più alte al mondo, pari a un terzo della spesa pubblica (oltre il 16 per cento del pil).
Eppure i sindacalisti non sono pienamente appagati. La più soddisfatta è il leader della Cisl Annamaria Furlan: “Ci accontentiamo, ma restano ancora tante cose da fare”. Carmelo Barbagallo della Uil, reduce dalle polemiche per riunioni sindacali in crociera, dice che non basta: “I sei miliardi stanziati non sono sufficienti e non dimentichiamo gli esodati”. Susanna Camusso, segretario della Cgil, non lo chiama neppure accordo ma “verbale di sintesi”. Dice però che l’intesa è servita a mettere le cose in chiaro: “Mi pare che il presidente del Consiglio abbia capito che non si può governare in solitudine”.
Le misure sulle pensioni hanno sicuramente mostrato l’arrendevolezza, per non dire la resa, del governo rispetto al potere politico e interdittivo dei sindacati, ma hanno anche reso evidente che i sindacati non rappresentano più i lavoratori ma i pensionati. O meglio, Cgil-Cisl-Uil sono il sindacato di una generazione, quella dei baby boomer, nata tra il 1945 ed il 1965, che hanno accompagnato dalla fabbrica alla pensione (passando per baby-pensioni e pre-pensionamenti). Basta dare un’occhiata ai numeri sul tesseramento per categoria: nella Cgil, su un totale di 5,5 milioni di iscritti, i pensionati dello Spi sono il 55 per cento (3 milioni), mentre i precari del Nidil sono solo l’1,5 per cento (75 mila). Cifre simili riguardano le altre sigle confederali. Naturalmente anche per una larga fetta dei lavoratori attivi, vista la distribuzione anagrafica degli iscritti, l’aspirazione massima è ritirarsi quanto prima dal lavoro.
Così la “strategia della pensione” è diventata, ogni anno e ad ogni legge di Stabilità, la piattaforma dei sindacati. Il problema è che in questo modo i sedicenti rappresentanti dei lavoratori hanno smesso di fare la lotta di classe contro i “padroni” che pagavano il salario per farla contro chi paga la pensione, cioè proprio i lavoratori più giovani su cui preme la pressione contributiva più alta del mondo (dati del rapporto Ocse sulle pensioni). Si è passati insomma dalla fallimentare tesi del “salario come variabile indipendente” degli anni 70 a quella insostenibile della “pensione come variabile indipendente” di adesso. I frutti di questa “lotta di classe generazionale” sono drammaticamente sintetizzati dai dati sulle condizioni dei giovani.
Negli ultimi venti anni, secondo l’indagine sulle famiglie della Banca d’Italia, il reddito medio degli over 65 è aumentato di 19 punti mentre quello degli under 35 è sceso di 15 punti. Nello stesso arco temporale la ricchezza che è aumentata del 60 per cento per gli over 64 e diminuita del 60 per cento per gli under 34. I dati Istat sulla povertà mostrano chiaramente come durante la crisi la povertà assoluta sia triplicata tra i giovani (ora è al 10 per cento), mentre è diminuita tra gli anziani, che sono la fascia d’età con il valore più basso (4 per cento). La questione generazionale è la vera emergenza di un paese ormai diviso in tre classi: pensionati, pensionandi e chi le pensioni le paga ma non l’avrà mai. Come cantava Domenico Modugno, nel mare della legge di Stabilità “i fortunati vanno in crociera, gli altri nuotano, qualcuno annega”.