Altro che No. Parisi processa Renzi
Milano. L’uomo dei numeri non c’è, fisicamente, al Teatro Franco Parenti. Compare solo sul grande schermo, in collegamento. Una importante riunione sulle banche, di cui raccontiamo tutto nell’articolo qui sopra, l’ha trattenuto a Roma. Così l’unico scambio di battute con il “rigeneratore” del centrodestra, Stefano Parisi, il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan ce l’ha solo alla fine del suo intervento. E’ Parisi che gli chede: caro ministro, non è che tutta questa accentuazione politico-comunicativa sull’idea che il Sì al referendum è l’ultima spiaggia, l’armageddon prima della catastrofe (se vincesse il No) è una forzatura, una cattiva esagerazione, che crea solo paura, e in tal modo produce davvero il rischio di instabilità. Pacato e meticoloso uomo dei numeri, Padoan ha ribadito le sue convinzioni: se vince il No, si dà un segnale negativo, non solo all’estero, ma soprattutto “rispetto a tutta la spinta riformista che è il contributo più importante di questo governo” al paese. E aveva affermato, prima, la sua “semplice idea” in materia: che tra chi vota No, ci sono molti che ne fanno una questione politica, di scontro con il governo e con il premier Matteo Renzi. Poi ci sono quelli che ritengono che la riforma costituzionale non funzioni, ma non è vero, si sbagliano.
Punto e a capo. Perché era forse inevitabile che nel dibattito milanese del Foglio con Padoan e Parisi su “Economia, innovazione e politica. Come si ricostruisce l’Italia?”, il tema del referendum fosse non il nodo del contendere, ma la pietra d’inciampo con cui ogni visione dell’Italia – come ricostruirla appunto, come farla ripartire davvero – deve fare i conti. Però Stefano Parisi, il liberale del centrodestra che si è schierato per il No, anche se non è detto che la pensi sul No come tutto il resto del centrodestra che vota No, è abbastanza abile da non farsi inchiodare sui paradossi di quel No, che mediaticamente lo schierano in una assai bizzarra compagnia di sinistra antica e dura, da D’Alema a Landini, dai nostalgici di Tsipras a Zagrebelsky. Così ha provato a uscire subito dalla difesa, praticando una zona-pressing da oppositore e mettendo in campo una sorta di processo a tutto campo alle idee e alle tattiche di Matteo Renzi. E provando a delineare, attraverso le critiche su riforme, giustizia, economia, immigrazione, un programma alternativo.
Dice Stefano Parisi, rispondendo al direttore del Foglio che lo incalza sulla cattiva compagnia del No, che lui non è tra quelli, che pure ci sono, che sperano nella bocciatura referendaria per mettere in difficoltà Renzi: “E’ invece una grave responsabilità la sua, quella di sostenere la retorica che questa sia la ‘riforma delle riforme’. Dobbiamo tornare ai temi, ai contenuti. Questa riforma è un pasticcio perché non produce effetti sulla efficienza del Parlamento, non rafforza il potere decisionale, per non parlare dei gravi contenziosi che nasceranno con le regioni. Invece, ad esempio, bisognava pensare alle macroregioni”. Ma se tutti dicono che dalla riforma nascerà un premier-ducetto, lo incalza Claudio Cerasa? “Mai sostenuto questo. E anzi il centrodestra dovrebbe smettere di usare gli stessi slogan che la sinistra ha usato contro Berlusconi. Il vero problema è che Renzi non ha avuto il coraggio di porre veramente il problema del potere. Di una riforma che creasse un primo ministro vero. Poi ha provato ad aggiustare le cose con l’Italicum. Ma una legge elettorale che dà la maggioranza dei seggi a chi ha il 20 per cento dei voti, è esattamente ciò che farà allontanare ancor più la gente dalla politica”.
Comunque vada il referendum, ripete, servirebbe fare una Costituente. “Ad esempio per una riforma della giustizia vera, non la cosetta che stanno votando ora e non serve. Ma per farlo ci vuole coraggio, il coraggio che non c’è stato”. Perché? Perché invece di puntare a selezionare una buona classe politica, destra e sinistra da vent’anni inseguono i giustizialisti, tanto che la gente si fida del nuovismo dei grillini, “che basta non aver mai fatto niente e non avere avvisi di garanzia per saper governare”. E il renzismo oggi insegue Grillo: come se bastasse Cantone l’Onesto a risolvere tutti i problemi. Non serve aggiungere il bollino dell’Anac per ogni appalto, e infatti non si riesce più a fare nulla. Serve un sistema di controllo che sia rapido ed efficiente.
Insistere sulla “riforma delle riforme” per scelte che invece sono timide, dalla Costituzione alla giustizia alla scuola (ce n’è anche per la scuola: “invece di pensare alla formazione hanno assunto i precari”) è secondo Parisi l’errore maggiore del governo. “La sfiducia non viene dalla possibile bocciatura della riforma – e anzi ricordiamoci come è andata in Gran Bretagna: tutti a promettere disastri con la Brexit, e la gente ha votato Leave –, ma nasce dall’economia che non cresce, mentre cresce il debito. Abbiamo il pareggio di Bilancio in Costituzione dal 2012: è cambiato qualcosa?”. Ma ce n’è anche per l’altro Matteo: “L’immigrazione è il problema di un’intera epoca, ma non servono le ruspe. Serve uno scatto politico e culturale: chi viene qui ‘deve’ diventare italiano”. Non buonismo né faciloneria.