Rimborsopoli non era Rimborsopoli. Assolto l'ex governatore Cota
Accusato di peculato per la storia delle “mutande verdi” comprate con i soldi della Regione, l’ex deputato della Lega Nord vince in primo grado dopo tre anni di processo e gogna mediatici. “Ho sofferto come un cane”, dice al Foglio raccontando la sua disavventura giudiziaria.
Rimborsopoli non era Rimborsopoli. “Ho sofferto come un cane”, è il commento a caldo di Roberto Cota, pochi minuti dopo che il collegio presieduto dal giudice Silvana Bersano Begey lo assolve perché il fatto non sussiste. Cota ne ha per tutti. L’avvocato Domenico Aiello lo schermisce dalla marea di giornalisti che dopo averlo crocifisso nel ruolo criminale del presidente spendaccione, vertice di un vasto sistema di ruberie legalizzate a danno dei cittadini, oggi gli porgono il microfono, che gentilezza. “La mia è stata una delle pagine più buie nella storia del sistema della comunicazione legata alla politica. Ho resistito grazie alla mia famiglia, a mia moglie, che è un magistrato, e a mia figlia Elisabetta di otto anni”.
Il teorema delle mutande verdi non ha retto in dibattimento. “Quelle mutande non sono mai esistite, erano un paio di pantaloncini, del valore di 40 dollari, acquistati durante un viaggio di lavoro a Boston. Dissero che erano mutande per puro dileggio. Durante il soggiorno americano, per un corso intensivo di inglese, partecipai a qualche incontro istituzionale, andai in visita al Mit, ma volli comunque pagare ogni spesa di tasca mia. Quello scontrino era capitato tra le spese da rimborsare per un errore umano”. Un errore che le è costato caro. “Il premier Matteo Renzi, nel pieno della sua campagna referendaria, a processo in corso, non ha avuto remore a ironizzare sulle mutande verdi, un’autentica bufala. Una caduta di stile che si commenta da sé”. Lei ha restituito alla regione 32mila euro. “Ho voluto farlo per smarcarmi anche solo dal sospetto, per mettere una pietra tombale e ripartire. Ho versato una cifra più alta di quella che mi contestavano. Questo non allevia il dolore: io sono il prototipo del politico morigerato, durante il mio mandato da presidente mi sono dimezzato lo stipendio, non ho fatto politica per arricchirmi. Invece i giornali mi hanno lapidato. Repubblica pompò il finto scandalo per spingere il ricorso di Mercedes Bresso sulle firme false e tornare alle urne mettendomi preventivamente fuori gioco”.
La procura aveva chiesto una pena di 2 anni e quattro mesi per peculato. “Ero certo della mia innocenza ma ho avuto paura fino all’ultimo perché è chiaro che un sistema di potere mi ha preso di mira. Lo dimostra la differenza di trattamento tra me e Bresso che, per le stesse accuse, è stata archiviata in corso di indagini. Io ho chiesto il giudizio immediato per saltare l’udienza preliminare e dimostrare, in tempi più brevi, la mia innocenza. Nonostante questo l’hanno portata per le lunghe e hanno impiegato tre anni per assolvermi”. Nel frattempo lei non è più presidente della Regione, non è più segretario regionale della Lega, non si è candidato né alle politiche né alle europee. “Mi hanno fatto pagare un prezzo altissimo. La sinistra non ha mai accettato di perdere una regione così importante per mano di un leghista. In campagna elettorale mi sputavano per strada”.
L’assoluzione in primo grado le restituisce l’onore perduto? “Il mio onore è rimasto integro. La gente continua a volermi bene, meglio l’affetto delle persone semplici che quello finto dei lacché pronti ad abbandonarti quando non servi più ai loro piani”. Il suo partito, la Lega di Salvini, non è stata tenera con lei. “Su questo preferisco non esprimermi. Io ho la passione politica nel sangue, non mi ritiro a vita privata. A differenza di buona parte dei politici attuali, io ho sempre seguito l’insegnamento leghista delle origini: ho un mestiere, sono un avvocato penalista, faccio politica per passione, non per lo stipendio”.