Bersani e il ddl Pamela Prati. Ovvero il busillis del televoto in democrazia
Qualunque cosa Pigi Bersani decida di fare per scongiurare gli esiti del “combinato disposto” che minaccia la democrazia, è altamente improbabile che la sera del 4 dicembre il televoto degli italiani verrà annullato, come oramai va di moda al Grande Fratello Vip – dove però almeno restituiscono gli euri degli sms e spiegano il perché nella successiva trasmissione: per un vizio di forma, una chiacchierata femminicida, o qualsiasi altro indicibile arcano dell’audience – perché il risultato non piacerà a lui o al suo Gran Nemico. Oppure, per dire con più pertinenza, annullato come un referendum greco pro o contro la troika, che se avessero votato per Miss Muretto Acropoli era tale e quale; o viceversa un accordo di pace da Premio Nobel, vanificato dal televoto referendario di un popolo che così, a pelle, preferisce la guerra civile perché chi lascia la via vecchia, eccetera.
La questione seria è che mentre la capacità dei partiti politici di convincere anche se stessi si sgretola come un monumento inutile del Novecento, e mentre la forza delle élite di tenere a bada il popolo si squaglia al sole come le previsioni sulla Brexit, il destino delle democrazie intese come luoghi in cui nessun uno vale davvero uno, ma qualcosa il suo parere conta, è sempre più legato a una metodologia di conteggio imperscrutabile: il televoto, appunto. Televoto in senso tecnico. Acutamente Michele Serra ha evocato il regolamento di Sanremo: bilanciato, per così dire. E televoto in senso simbolico, figurale direbbe Auerbach: l’esprimere una parere, spesso a caso, e determinare o pretendere di determinare con esso il corso degli eventi.
A parte gli scherzi – che poi scherzi non sono: il Grande Fratello Vip lo guardano a milioni, ma la produzione spiega pacatamente al suo pubblico, come già successo in altri talent, che la sua partecipazione “interattiva” non conta nulla: può esserci o saltare, the show must go on – la questione della democrazia (in) diretta, la democrazia del clic o del sì/no è il vero, corrosivo problema della politica. Non l’ha nemmeno inventata Casaleggio: da un a parte c’è l’ideologia della trasparenza “televisiva” (o in streaming) – esisti come politico, ti voto o no perché ti vedo al talk: non per le idee, ma per quel che sembri. Dall’altra c’è l’opacità della politica in formato big data: sappiamo cosa pensate, come vivete, vi costruiamo le risposte che volete ma nemmeno voi immaginate. In mezzo c’è la Rete, il grande flusso dell’opinione che tutto mescola e attraverso cui tutti pensano di influire, di decidere. Basta un clic.
Qualche tempo fa, Barack Obama ha tessuto un elogio di America Idol, il più famoso talent americano, basandolo su una constatazione che, a prima vista, sembra la democrazia, ma forse è la sanzione della sua irrilevanza: “Per oltre un decennio, questo show ha motivato milioni di giovani americani a votare, spesso e con entusiasmo… Il voto è il diritto più fondamentale e sacro della nostra democrazia. Credo che dovrebbe essere facile tanto quanto votare per American Idol”. Ma se votare sulla Costituzione, su Trump o su Pamela Prati sono la stessa cosa, a che serve la democrazia? Se è un televoto, si può annullare.