Massimo Colomban alla conferenza stampa dei nuovi assessori al Bilancio e alle Partecipate di Roma (foto laPresse)

Con il piano Raggi per le municipalizzate, il M5s entra in modalità New Age

Salvatore Merlo
Poiché Massimo Colomban è un imprenditore di un certo successo e poiché sa come la ricchezza prima di essere redistribuita debba essere prodotta (e con buona pace del reddito di cittadinanza), allora diceva: “Penso che le grandi aziende romane vadano razionalizzate”.

Roma. Poiché è un imprenditore di un certo successo (ha fondato a venticinque anni una multinazionale dell’edilizia, la Parmeelisa, poi venduta per una cifra astronomica), e poiché sa come la ricchezza prima di essere redistribuita debba essere prodotta (e con buona pace del reddito di cittadinanza), allora diceva: “Penso che le grandi aziende romane vadano razionalizzate”. E poiché sapeva bene, se non altro per esperienza manageriale, che il termine razionalizzazione in Italia ha sempre avuto una spiccata affinità col chewing-gum, cioè lo tiri di qua e vuol dire una cosa, lo tiri di là e ne vuol dire un’altra, allora si sentiva anche in dovere di essere preciso: “A Roma alcuni servizi vanno privatizzati anche totalmente”.

 

E insomma Massimo Colomban, assessore alle partecipate del comune di Roma da poco nominato da Virginia Raggi, il milionario nordista, venetista e turboliberista favorevole alla Tav e alle grandi opere, sostenitore del Mose a Venezia, della Pedemontana e della contestatissima autostrada Orte-Mestre, insomma quel signore pelato e con gli occhiali che quelli di “fare per fermare il declino” ricordano attento e pieno di idee alle loro riunioni, fino a pochi giorni fa si esprimeva nei termini più preoccupati e razionali di fronte all’immobile catastrofe che gli è stata affidata dal M5s: ottanta società, tra municipalizzate, partecipate e fondazioni che perdono 1,67 miliardi di euro all’anno contribuendo ad allargare la voragine dei conti  del comune, che ormai ammonta a 13 miliardi di euro, nella città in cui l’aliquota Irpef è la più alta d’Italia. Diceva Colomban, adesso beniamino di Crozza: “La ricetta è sempre la stessa, a tutti i livelli: tagliare i costi e aumentare il fatturato”.

 

E allora bisogna proprio immaginarselo l’assessore Colomban – uno che si è spinto a dire che “sono convinto che le persone che lavorano nell’amministrazione pubblica almeno per la metà siano brave, capaci e produttive”… dunque l’altra metà…  – bisogna proprio immaginarselo, si diceva, quando martedì scorso s’è visto recapitare nel suo studio in Campidoglio un bel faldone denso denso, una spremuta fresca di meningi cui hanno contribuito i più attivi tra i consiglieri comunali del Movimento cinque Stelle, un piano già pronto, una linea guida sul da farsi nel ginepraio di sprechi e clientele delle partecipate comunali, un testo prescrittivo il cui spirito è stato sintetizzato così da uno dei suoi estensori del Movimento: “Il faro è l’attuazione dell’articolo 46 della Costituzione per ricostruire nelle aziende un senso di comunità”. Nientemeno. All’Atac. E poi: “E’ la trasposizione a livello aziendale di quello che fa il M5s attraverso il blog di Grillo, la piattaforma Rousseau e la partecipazione diretta dei cittadini”. Anvedi. E ancora: “E’ l’inizio di un percorso che porteremo avanti con la massima trasparenza coinvolgendo anche i sindacati”. E qui è necessaria una piccola parentesi: la sola Atac, l’azienda dei trasporti, ha 11.800 dipendenti iscritti a tredici differenti sigle sindacali, e quando nel 2010 deflagrò la cosiddetta parentopoli di Alemanno, duemila assunti nelle municipalizzate, a scoperchiare la vicenda clientelare furono frange interne al sindacato della destra, la Faisal. E perché lo fecero? “Perché non erano stati assunti i loro”, raccontò Francesco Storace. Ecco. Seconda parentesi: visto il numero dei dipendenti, sia Atac sia Ama, l’azienda della nettezza urbana, spendono più per i costi del personale che per erogare i servizi.

 

In questo astratto paese, si sa, il nodo pratico e urgente delle questioni tende  a diluirsi in dosi omeopatiche, e va bene. Il Movimento cinque stelle dalla sua orbita intorno alla terra ancora si ostina a mandarci segnali immutabili e rarefatti tipo “il blog”, “Rousseau”, “le proposte dal basso”, il “coinvolgimento dei sindacati”, e va bene. L’ex assessore al Bilancio Marcello Minenna aveva intenzione di procedere a dismissioni e accorpamenti, ma lo hanno spinto a dimettersi, e va bene. La nuova linea del comune è in conflitto con il piano di rientro imposto due anni fa dal governo (liquidazione e vendita di trenta società partecipate in perdita e tagli per 440 milioni di euro in tre anni), e va bene. La sindaca Raggi va a naso alto, mento in fuori e occhi socchiusi, esponendosi ai beffardi precipizi e alle crudeli voragini che si spalancano lungo la strada della realtà (“abbiamo sbagliato qualcosina”), e va bene. Ma qui è di un altro aspetto che ci stiamo interessando. Ma ve la immaginate voi la faccia di Colomban, quello dell’accumulazione capitalistica, del nord industrioso, delle partite Iva, dei padroncini e dei capannoni, insomma quello di Crozza, mentre i suoi committenti politici del M5s gli dicono che all’Atac la priorità è “ricostruire un senso di comunità”?

  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi universitaria in Inghilterra. Ho vinto alcuni dei principali premi giornalistici italiani, tra cui il Premiolino (2023) e il premio Biagio Agnes (2024) per la carta stampata. Giornalista parlamentare, responsabile del servizio politico e del sito web, lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.