Ha conosciuto più emergenze democratiche la mia generazione che quella di mio nonno e le riforme possono aspettare, no? No
Svegliarsi la mattina di lunedì 5 dicembre con la vittoria del No e scorrere la timeline di Facebook. Gira già il video con Mentana che annuncia il risultato alle 3.40, mentre tu eri andato a dormire con un lieve vantaggio del Sì, come per la Brexit. Ci sono i post con Benigni che legge la Costituzione (e gli insulti tra i commenti perché ha tradito), le foto di Settis, Zagrebelsky, Dario Fo; c’è il pezzo di Travaglio sul Fatto che si intitola “C’è chi dice No” e una raffica di “Bella Ciao” dei Modena City Ramblers a un concertone del Primo maggio. Chiudere tutto. Rimettersi a letto. Accendere la tv. Dichiarazioni, interviste, prime geografie del voto. Il No ha vinto al sud e tra i pensionati. “Ha pesato l’iniqua distribuzione del reddito, il fossato che ormai divide le generazioni, il meridione abbandonato a se stesso” eccetera. Ma che importa. Abbiamo sventato l’attacco alla democrazia. L’ennesimo. Ha conosciuto più emergenze democratiche la mia generazione che quella di mio nonno e le riforme possono aspettare.
Prima l’antifascismo. D’Alema al Tg3 lancia un patto per l’Italia. Appuntamento al Cinema Farnese. Prove generali di Große Koalition. Si apre lo spazio per un governo Cinque stelle-Salvini-Vendola-Brunetta-Meloni-Landini quel che resta di Forza Italia più Carlo Smuraglia dell’Anpi. Toni Negri senatore a vita. Una foto di Vasto in cinemascope. E’ il Partito della Nazione. C’è l’inno di Fedez, “Bella Italia, Bella Zio”. Su Internazionale mi spiegano che questo voto è una grande occasione per far ripartire la sinistra italiana. In una lunga intervista a Scalfari, Renzi dice che è mancato il voto dei giovani. Ripensi a quella volta che era andato ad “Amici” col giubbotto di pelle e i jeans. Sembra passato un secolo, era il 2014. L’indignazione era alle stelle. L’assurda pretesa di farsi votare da gente che non è cresciuta nella Fgci.
Passi pure corteggiare le partite Iva, ma i terroncelli con le sopracciglia a ali di gabbiano no. Meno male che c’è Maria De Filippi: “Renzi non vive con i paletti intorno come parte del gruppo politico a cui appartiene e gli italiani che guardano ‘Amici’ non sono più sfigati di quelli che guardano ‘Ballarò’”. Il problema non erano gli spettatori di “Ballarò”, ma i 4 milioni incollati su RaiUno davanti a “La più bella del mondo”, quelli che su Twitter scrivevano “grazie per questo viaggio nella Bellezza, anche a me è venuta voglia di abbracciare i nostri padri costituenti”. Giù le mani dalla Costituzione. Le costituzioni non devono funzionare. Il valore supremo è la Bellezza. Bella, pura, scolpita nel tempo e immutabile. Perché Bellezza fa rima con lentezza e da noi non c’è l’una senza l’altra. “A crazy country, but beautiful”, come disse Sorrentino agli Oscar. Per custodire Lentezza e Bellezza, abbiamo inventato una burocrazia che è una creatura mitologica nata dall’abbraccio tra il piglio sabaudo e la trascendenza borbonica. Un formidabile impasto di misteri e immobilità catatonica che ci passiamo da una generazione all’altra. Perciò uno si era attaccato alla riforma.
Io che sarei per lo stato minimo di Robert Nozick, mi ritrovo a fare il tifo per un referendum che vuole uno stato centrale più forte. Perché peggio di uno stato centrale forte, ci sono solo le regioni italiane come enti amministratori e le leggi che cambiano tra Catanzaro e Catanzaro Lido, tra Vico di Sopra e Vico di Sotto. Massì. Teniamo tutto così. E’l’architettura costituzionale perfetta di un paese in cui per aprire un’impresa e mettersi in regola ci vogliono duecentonovantasei giorni, contro i tre di Londra. La linea più breve tra due punti è e sarà ancora per chissà quanto l’arabesco. Basta un No.
Andrea Minuz è docente di Storia del cinema all’Università la Sapienza di Roma, classe 1973