I trentenni hanno vissuto sulla propria pelle la più grave crisi dell'ultimo secolo e sarebbe un errore non cambiare nulla
Thomas Jefferson, uno dei padri costituenti degli Stati Uniti d’America, ebbe a dire che ogni generazione dovrebbe avere il diritto di scriversi la propria Costituzione, o quanto meno di modificarla, adeguando le istituzioni a un tempo diverso da quello in cui le regole furono pensate e forgiate. Se così non fosse, se le costituzioni fossero ferme e immutabili, vivremmo in un’asfissiante tirannia dei morti sui vivi. La classe politica che scrisse la Costituzione Italiana dopo la Seconda guerra mondiale aveva certamente la tempra di chi aveva vissuto i tornanti più terribili e pericolosi della storia, ma non era estranea ai condizionamenti del proprio presente. Non si fidavano gli uni degli altri e disegnarono un modello istituzionale (la seconda parte della Costituzione, quella sull’ordinamento della Repubblica) in cui tutti potessero comandare, ma nessuno decidere.
Finché ebbe la sensazione di poter vincere le elezioni, nel 1947, il leader del Pci Palmiro Togliatti si scagliò contro il bicameralismo e persino contro l’istituzione di un potere di garanzia come la Corte costituzionale. Pochi anni dopo, ormai svanita l’ipotesi di governare, si batté contro la cosiddetta “legge truffa” promossa da Alcide De Gasperi, che provava a dare una qualche forma maggioritaria al sistema elettorale. A parti invertite, i democristiani e i loro più piccoli alleati laici prima favorirono costituzionalmente la debolezza degli esecutivi e poi provarono con scarsi risultati a irrobustirli. Dopo 70 anni, noi siamo ancora intrappolati in quella stessa contingenza post bellica. E più passa il tempo e più essa diventa – appunto – tirannia dei morti sui vivi. Nei decenni trascorsi dopo l’entrata in vigore della Costituzione repubblicana, il sistema politico italiano scelse di non basarsi sulla forza delle istituzioni, che erano appunto debolissime, ma su due grandi forze extra istituzionali: la partitocrazia e il debito pubblico.
Quest’ultimo, in particolare, ha permesso una lunga pax sociale e politica a scapito delle generazioni future (cioè noi), secondo un modello che il professor Antonio Martino definì “democrazia acquisitiva”: il consenso comprato a botte di spesa pubblica. Ma falliti i partiti tradizionali e divenuto impraticabile il ricorso sistematico a ulteriore debito (il default è sempre dietro l’angolo), il sistema istituzionale italiano ci offre ormai la sua drammatica incapacità, di tanto in tanto rintuzzata dall’intervento di qualche forza “supplente”: i governi tecnici di ispirazione internazionale, la Banca centrale europea, la Corte costituzionale, i tribunali. Per quanto ancora possiamo proseguire così? Chi scrive fa parte di quella famigerata “classe 1980” che – secondo i calcoli del presidente dell’Inps Tito Boeri – andrà in pensione a 75 anni, se mai ci andrà. I trentenni di oggi hanno già vissuto sulla propria pelle la più grave crisi economica dell’ultimo secolo, sperimentando una caduta del pil superiore a quella della Seconda guerra mondiale.
Scegliendo il Sì alla riforma costituzionale, noi non affermeremmo l’adesione al progetto di Matteo Renzi o della nostra coetanea Maria Elena Boschi, ma rivendicheremmo il nostro diritto a quell’autodeterminazione generazionale di cui parlava Jefferson. Perché cambiare oggi la Costituzione, segnare nel diario della storia la data del 4 dicembre 2016, significa appropriarci finalmente di questa Repubblica e determinare i percorsi futuri, non subirli come fossimo dei “vinti” verghiani. Noi non abbiamo un fascismo alle spalle da cui fuggire, ma un fascismo alle porte da scacciare.
Piercamillo Falasca è direttore editoriale di Strade, classe 1980