Non cambiare la Costituzione significa rinunciare a governare il cambiamento e prendere in mano i destini delle democrazie
Nel 2006 avrei votato a favore della riforma costituzionale del governo Berlusconi, ma all’epoca avevo solo diciassette anni e per questo oggi ritengo che il referendum costituzionale promosso dal governo Renzi sia un’opportunità generazionale da cogliere. Senza scomodare Thomas Jefferson, per il quale ogni generazione doveva disegnare la propria Costituzione, basta ripescare i lavori degli anni Ottanta e Novanta di Gianfranco Miglio e del Gruppo di Milano per capire quanto fosse urgente la necessità di aggiornare la Carta fondamentale dopo la caduta del Muro. Nel mondo globalizzato è imperativo decidere rapidamente per rispondere ai cambiamenti repentini degli scenari geopolitici, economici e finanziari.
Allo stesso tempo è diventata sempre più importante la capacità delle nazioni di costruire governi stabili, quindi duraturi, capaci di implementare le riforme, renderle operative e non soltanto d’immaginarle. La riforma costituzionale proposta dal governo ha delle imperfezioni tecniche e delle farraginosità, ma costituisce un primo passo in due direzioni. La prima è la rottura del tabù della Costituzione irriformabile e intoccabile.
La vittoria del Sì costituirebbe un punto di svolta nella storia costituzionale del paese e il superamento del monopolio culturale, giuridico e politico del club Zagrebelsky. Riformare oggi significa aprirsi una finestra d’opportunità per riformare la Carta costituzionale anche nel prossimo futuro dando la possibilità al popolo italiano di adeguare il proprio sistema politico ai mutamenti del tempo che sono sempre più rapidi e imprevedibili. La seconda direzione è il superamento di un sistema costituzionale che negli ultimi anni ha mostrato tutta la propria consunzione: coalizioni incapaci di riformare perché osteggiate dalle minoranze interne, lentezza decisionale, governi tecnici, nuovo protagonismo del presidente della Repubblica, cambi in corsa senza elezione dei presidenti del Consiglio. In questo tratto si estrinseca tutto il paradosso interno al dibattito sulla riforma poiché i sintomi sopraelencati sono stati considerati delle patologie proprio dai sostenitori del No che oggi si trovano a difendere ciò che hanno ferocemente criticato negli ultimi anni. Al contrario, la vittoria del Sì al referendum aprirebbe una nuova stagione caratterizzata da maggiore stabilità governativa e capacità decisionale. Bisogna dunque porsi questa domanda prima di entrare nel seggio elettorale: “E’ meglio ciò che c’è oggi, cioè una Costituzione ferma a settant’anni fa?”.
Contro il politicamente corretto di gran parte dei costituzionalisti italiani, tutti in preda ai sintomi della tirannofobia, bisognerebbe rivendicare di quanto sia opportuno rafforzare il potere esecutivo nell’èra delle leadership e della mediatizzazione, quanto sia salutare ripensare i parlamenti come luoghi di valutazione delle politiche pubbliche e di controllo dell’amministrazione più che di dibattito politico e legislativo. Queste sono considerazioni politologiche da tenere a mente onde evitare di rimanere incastrati dalla ridondante retorica contro l’oligarchia e il decisionismo. Inoltre, la riforma riduce il potere delle regioni e questa è probabilmente la migliore freccia all’arco del Sì al referendum. Le regioni hanno fallito la loro missione, sono enti privi di qualsiasi responsabilità fiscale e politica in cui si annidano clientelismo, corruzione e incapacità amministrativa. Centralizzare alcune materie, per loro natura di carattere nazionale e internazionale, è una scelta corretta perché nel mondo globale non si può rimanere intrappolati nel regionalismo senza strategia. Sono le città, le reti e, in misura minore, gli stati nazionali a governare i processi del mondo globalizzato e non delle regioni tracciate con la matita.
Da ultimo tenute ferme le libertà fondamentali, il principio di eguaglianza sostanziale e i contrappesi istituzionali, va rilevato come le Costituzioni, in particolari quelle lunghe come la nostra, siano sempre di più da considerarsi come un contratto tra governanti e governati. Se le condizioni esterne cambiano allora alcune clausole possono essere modificate. Non si può sacralizzare ciò che sacro non è, la Costituzione appunto, in quanto questa attiene ai cambiamenti del potere e quando questi si manifestano i poteri pubblici devono essere riorganizzati. Per questi motivi, una generazione che non vuole morire d’immobilismo, politicamente corretto e puntigliosità dovrebbe votare Sì alla riforma costituzionale, indipendentemente da quali siano le opinioni politiche di partenza. Rinunciare a cambiare la Costituzione significa rinunciare a governare il cambiamento e, da ultimo, a prendere in mano i destini delle democrazie. Una rinuncia pericolosa perché come scriveva Edmund Burke “ciò che è incapace di cambiare è incapace di conservarsi”.
Lorenzo Castellani, classe 1989, già direttore scientifico della Fondazione Luigi Einaudi