Tra svolta autoritaria e trombonismo sono costretto a scegliere la svolta autoritaria. Sperando non produca tromboni
Alla fine voto Sì, ma per ragioni davvero evanescenti, che non penso convincerebbero, a parte me, nessuno. In sostanza vado a simpatia, come fanno i cattivi insegnanti. A fine luglio avevo accumulato sulla scrivania un certo numero di libri e di saggi, “per documentarmi”, poi agosto è scivolato via in tutt’altre faccende, senza quasi che me ne accorgessi, e senza che il buon proposito diventasse qualcosa di più di un buon proposito. Ho solo letto tutto l’ultimo numero della rivista Il Mulino, che ospita interventi pro e contro, e un po’ di altre cose sparse, su riviste e giornali: abbastanza per capire, direi, che l’opzione per il Sì e l’opzione per il No sono entrambe ragionevoli, e che sono ragionevoli anche le obiezioni che i sostenitori del Sì e del No si muovono a vicenda.
Le ragioni del sì mi paiono migliori (il superamento del bicameralismo perfetto, la revoca di un buon numero di competenze alle regioni, la riduzione del numero dei parlamentari), ma dato che non sono un esperto in materia, e ho speso il mio agosto facendo altro, non saprei andare molto oltre questo: un’impressione. Così alla fine vado a simpatia. La gran parte dei giuristi intelligenti che conosco (anche se non tutti) è per il Sì, e io in materie come questa delego volentieri le mie opinioni agli esperti di cui mi fido. E’ una posizione solo un po’ più raffinata di quella espressa da Beppe Grillo quest’estate: “Voi dovete decidere con l’istinto primordiale che avete ancora. Guardate le facce di chi vi dice votate Sì.
Guardate le facce! E’ tutta gente che non si deve neanche avvicinare alla Costituzione”. L’unica differenza è che io non mi fido dell’istinto primordiale, che anni di scuola hanno finito per spegnere; e che mi sento un po’ più a mio agio in mezzo alle facce del Sì (non tutte!) che in mezzo alle facce del No. Perché a decidermi, in realtà, è stato soprattutto il tenore delle argomentazioni a favore del No, anzi neppure il tenore delle argomentazioni, qualcosa di più immateriale: il modo di porsi nel dibattito, il tono della voce, l’atteggiamento, la prossemica.
Trovo infatti che il problema più grave dell’Italia – più grave del debito pubblico, della mafia, dell’immigrazione – sia la retorica, cioè quel sentimento di narcisistica indulgenza nei confronti di se stessi che porta molti italiani, specie tra gli intellettuali, a immaginarsi come soldati del Bene nella battaglia contro il Male, e a trasformare perciò ogni faccenda pratica, amministrativa, in una questione di principio dalle infinite, gravissime implicazioni. Nella self-righteousness di molti fautori del No – i paladini della democrazia in pericolo, i vendicatori dei Padri costituenti – mi è parso di ritrovare questo atteggiamento, che mi fa orrore: orrore. Tra la svolta autoritaria e il trombonismo sono così costretto a scegliere la svolta autoritaria. Sperando che non produca tromboni, come l’altra volta.
Claudio Giunta saggista, scrittore e storico della letteratura, classe 1971