Un cda di Google o di Facebook può decidere, in due ore, e noi ancora qui ad aspettare il Senato
Ogni mattina mi sveglio e vado a farmi una doccia. Come milioni di viventi dotati di buon senso che la mattina si svegliano e vanno a farsi una doccia. Una, non due. Poi, come loro, mi lavo i denti. Una volta, non due. Questa, per quanto mi riguarda, è tutta la sapienza costituzionale di cui ho bisogno per decidere come votare al referendum. Del resto, se uno ha finito di fare il compitino e gli ci cade la fetta di pane dalla parte della marmellata, non dice “evviva la costituzione più bella del mondo”, dice “porcapaletta, mi tocca rifarlo!”. E lo so che da qualche mese a questa parte, al bar di Via della Costituzione, le discussioni si sprecano, ma, a naso, di tutti gli argomenti pro o contro, questo mi pare il più convincente per mettere una croce sul Sì. Senza pensarci due volte, per me, fare due volte la stessa cosa, nello stesso identico modo, non è democrazia. E’ masochismo. Arrivo a comprendere che il bicameralismo paritario avesse una ratio, all’indomani di vent’anni di regime, come estremo inghippo cautelativo nell’iter di leggi che avrebbero potuto risentire di una qualche nostalgia liberticida.
Ora però occorre far notare che un consiglio di amministrazione di Google o di Facebook può decidere, in due ore, su questioni che hanno un impatto sulla vita quotidiana delle persone pari a quello di una qualunque legge dello stato. Se una democrazia parlamentare crede di potersi permettere il lusso di rispondere allo spirito del tempo con il bicameralismo paritario, è bene si sappia che, nella strada fra Montecitorio e Palazzo Madama, andrà persa non solo l’urgenza della risposta, ma forse il senso stesso della domanda. Ci sono però due motivi, di ordine molto diverso, che ispirano la campagna referendaria avversa al cambiamento, per come è stata portata avanti da una coalizione trasversale persino più composita di quella antica elencatio jovanottiana dei Giusti che andava da Gandhi a Madre Teresa, fino al Che, ma passando da San Patrignano.
Motivi che devono essere davvero validi, se tengono insieme Salvini e Beppe Grillo, Settis e Berlusconi, Zagrebelsky e Brunetta, D’Alema e Di Maio, Ferilli e Santanchè per citare i primi fra i tanti nomi illustri che mi girotondano in testa. Il primo, forse il più diffuso, è quello di chi, in odio a Renzi, fa esattamente quello che vuole lui (come da prontuario freudiano), personalizzando un quesito referendario la cui portata eccede di non poco la sopravvivenza di un leader politico e di un governo. La seconda è quella di chi teme il colpo di rasoio all’iter legislativo per una prudenza tutta novecentesca, dettata dall’idea stessa che si ha del raggio di azione dell’attività del Parlamento. Questa prudenza, seppur comprensibile, di fatto non tiene conto del dato più chiaro che emerge alla luce della storia recente: la capacità legislativa dello stato non riguarda più tutto l’orizzonte del possibile.
La politica che si fa in Parlamento ha finito per ritrarsi, circoscrivendo il suo raggio d’azione fino al punto di fungere, talvolta, da mero capro espiatorio per disagi nati altrove. Complice di questo, l’andirivieni paritario fra le Aule, in cui alla fine si confonde agli occhi dei cittadini chi è responsabile di cosa: una confusione che finisce per alimentare populismo e discredito verso la stessa democrazia parlamentare. Ma se la politica che si fa in Parlamento può forse di meno rispetto a quanto non potesse nel secolo in cui sono cresciuto, questo “meno” che ancora si può fare, deve essere fatto, di volta in volta, assumendosene la chiara responsabilità di fronte ai cittadini. A maggioranza e con ragionevole sollecitudine.
Simone Lenzi, scrittore, classe 1968