Vi spiego come abbiamo convinto Confindustria a votare Sì
Al direttore - La posizione di Confindustria sul referendum non deve sorprendere. Confindustria è per il Sì. E’ una posizione netta, precisa e coerente con la propria storia e col proprio mandato di rappresentanza dell’industria italiana. Infatti la governabilità del Paese e la certezza delle decisioni pubbliche sono sempre stati obiettivi prioritari dell’azione di Confindustria, perché condizioni indispensabili del “Fare impresa”. Per questo motivo le riforme politico-istituzionali vengono costantemente monitorate e, se coerenti, supportate.
Già nel 2001 Confindustria, metteva in guardia dal rischio che la riforma del Titolo V, allora in discussione, potesse tradursi in una “Confusa miscellanea di poteri centrali e locali”, con la presenza di tante aree territoriali che si muovono ognuna per conto proprio per rispondere a logiche di potere politico. Più recentemente, nella mia qualità di vicepresidente per la Semplificazione ho dedicato una grande attenzione a tutto l’iter della redazione delle modifiche della Costituzione, per le quali il 4 dicembre saremo chiamati a votare. L’attenzione da parte nostra è sempre stata focalizzata sull’impatto economico della riforma, soprattutto per quanto riguarda proprio il Titolo V. E questo si è concretizzato nel marzo 2014, quando Confindustria presentò un Position paper sulle riforme istituzionali che ha trovato un ampio riscontro nelle soluzioni adottate da Governo e Parlamento nel testo della riforma. Per fortuna.
Il presidente di Confindustria, Vincenzo Boccia (foto LaPresse)
La situazione economica attuale, infatti, non è certo rosea. Se si analizza la dinamica del prodotto interno lordo dal 2000 in avanti i dati sono preoccupanti. Da quanto ci dice il Centro Studi di Confindustria, nel periodo 2000/2007, cioè prima della crisi, il pil italiano è cresciuto, in percentuali cumulate, dell’8,5 per cento. L’area Euro, nello stesso periodo, è crescita del 14,8 per cento, la Germania del 10,2, la Francia del 13,8 e la Spagna del 27,7 per cento, più del triplo rispetto all’Italia. Se la salita del pil è stata lenta, la discesa, invece, è stata molto veloce: dal 2007 al 2014, cioè durante la crisi internazionale, a fronte di un calo dell’area Euro dello 0,9 per cento, l’Italia è scesa del 9 per cento. Molto più della Spagna, -6,3 per cento, con Francia e Germania in territorio positivo. Infine se esaminiamo il periodo 2000/2017, secondo i dati previsionali, la crescita dell’area Euro sarà stata del 18,9 per cento, quella dell’Italia dello 0,7 per cento, praticamente ferma.
Francia, Germania e Spagna tutte sopra il 20 per cento. Dire che l’economia italiana è ferma non è dunque un luogo comune, ma un dato di fatto. Anche il World Economic Forum, pur rilevando un leggero miglioramento, pone l’Italia al 43esimo posto tra 140 paesi per competitività nel suo famoso indice, e nel “sub-indice” che analizza i governi più “spreconi”, piazza l’Italia al 135esimo posto su 140 paesi. Questo indice analizza il modo in cui i governi spendono i soldi delle tasse e, rielaborato dalla rivista inglese Business Insider, vede l’Italia essere il peggiore tra i paesi OCSE. Eppure, nel momento della bocciatura, la rivista afferma che l’Italia affronta un voto sulla riforma costituzionale che “potrebbe rimodellare l’intero governo e le finanze pubbliche”. Questa riforma diventa dunque fondamentale per consentire al paese una ripresa stabile e duratura.
I cambiamenti degli scenari internazionali susseguenti alla situazione economica internazionale, ancora nebulosa, evidenziano ulteriormente le debolezze dell’attuale Titolo V. Le imprese, è noto, hanno bisogno di sistemi regolatori e amministrativi uniformi, stabili e standardizzati per poter investire. L’attuale attribuzione alla competenza concorrente di materie a rilevanza strategica nazionale e la dilatazione dei processi decisionali ha contribuito a non rendere particolarmente attrattivo il nostro Paese. Basterebbe soltanto un numero: 1586. Si tratta del numero di ricorsi tra stato e regioni innanzi alla Corte Costituzionale dal 2002, cioè dalla riforma del Titolo V. Il dato è particolarmente allarmante se si pensa che il contenzioso Stato-Regioni supera il 40 per cento di tutte le pronunce della Corte: un evidente ingolfamento. Nell’ultimo anno soltanto Confindustria ha ricevuto dal sistema associativo la richiesta di promuovere presso il Governo l’impugnazione di quattro leggi regionali considerate lesive degli interessi imprenditoriali e in contrasto con la legislazione statale.
Accanto a questi dati numerici, a conferma dell’inefficienza del sistema attuale, vi sono le esperienze che qualsiasi imprenditore è, purtroppo, in grado di raccontare, perché le ha vissute sulla propria pelle. Mi riferisco alle tante vicende negative avvenute quando la volontà di investire si è scontrata contro sistemi decisionali farraginosi e poteri di veto incrociati. A titolo di esempio quando nel 2006 l’azienda che presiedo si ritrovò a dover chiudere, a seguito della riforma della Politica Agricola Comunitaria, 6 zuccherifici sui 7 che possedeva, decidemmo, come altri imprenditori del settore saccarifero, di riconvertire 5 dei 6 siti in centrali a biomasse.
I progetti vennero tutti approvati dall’apposito Comitato Interministeriale e ad essi venne attribuita la qualifica di progetti di “Interesse Nazionale”. Era il 2007. Oggi, dopo quasi 10 anni solo due dei cinque progetti stanno vedendo la luce, avendo tutte le autorizzazioni necessarie. Gli altri sono bloccati da veti locali, ricorsi ad ogni genere di tribunale amministrativo, cambi di maggioranze politiche locali con conseguente cambi di indirizzi. Così 480 milioni di euro di investimenti sono bloccati da dieci anni e centinaia di lavoratori, tra diretti e indiretti, non hanno potuto lavorare e guadagnare. Ovvio che poi un imprenditore decida di fare altro o andare altrove.
L’attuale Titolo V in vigore inserisce, tra le materie a legislazione concorrente, alcune strategicamente rilevanti, come “produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia”. Ciò ha comportato rilevanti ritardi nello sviluppo degli impianti e delle reti strategici. In particolare, le imprese denunciano procedimenti autorizzativi farraginosi, con scarso scambio di informazioni tra i vari livelli di governo. Ad esempio, in materia di certificazione energetica degli edifici, ogni regione tende a produrre una legislazione diversa, costringendo l’installatore e il produttore a districarsi tra normative ogni volta diverse. Più in generale, è obiettivamente improprio che su temi come quello energetico – di intrinseca rilevanza nazionale – ogni regione possa fare da sé, con le immaginabili conseguenze in punto di disomogeneità degli indirizzi politici e di regolazione.
Anche il governo del territorio è inficiato dall’attuale Titolo V. Porti e aeroporti civili, grandi reti di trasporto e di navigazione, anche in questo caso la competenza concorrente ha determinato situazioni di stallo e di incertezza.
Si pensi, ad esempio, al settore edilizio: accade spesso che ciascuna regione e ciascun comune disciplinino in modo diverso il procedimento per il rilascio del permesso di costruire o di altri titoli edilizio. Ma, forse, ancor più emblematico è il caso delle grande infrastrutture viarie. Il moltiplicarsi di centri decisionali e il tentativo di offrire maggiori garanzie alla tutela degli interessi delle comunità locali, hanno creato una crescita esponenziale dei tempi di autorizzazione e quindi di realizzazione degli investimenti. Per fare un esempio, per le autorizzazioni necessarie alla realizzazione della Variante di Valico tra Sasso Marconi e Barberino del Mugello sono occorsi 8 anni. Lo stesso tempo necessario, 60 anni fa, a realizzare i 761 chilometri dell’Autostrada del Sole. Quattordici anni sono invece serviti, dalla conclusione della Conferenza dei servizi, per realizzare la terza corsia tra Firenze Nord e Firenze Sud.
La riforma che saremo chiamati a votare riporta alla competenza esclusiva statale tutte le materie attinenti a interessi di dimensione nazionale, dalle grandi opere, alle comunicazioni, all’energia. Inoltre, sopprime la legislazione concorrente, che è stata la principale fonte di conflitto, essendo difficile individuare l’esatto confine tra ciò che spetta allo stato – come titolare della potestà sui principi – e ciò che invece spetta alle regioni, titolari della potestà legislativa di dettaglio. Con la riforma che andremo a votare si determinano i presupposti per avere un tessuto normativo più omogeno, anche grazie all’importantissima istituzione della “clausola di supremazia”, che rappresenta una delle novità più importanti per le imprese.
La clausola, infatti, consente allo stato di intervenire con proprie leggi in qualsiasi materia, tra quelle riservate alle regioni, quando sia in gioco “l’unità giuridica o economica della Repubblica”, o l’interesse nazionale. Risulta quindi evidente perché Confindustria sia a favore dell’attuale riforma. Non si tratta di partigianeria, la nostra scelta non è partitica. Per Confindustria il supporto al Sì al Referendum va nella direzione di risolvere quei problemi di scarso coordinamento tra i vari livelli di governo, ridando così al sistema Paese l’attrattività che merita. Questa riforma è fondamentale per modernizzare il Paese e dotarlo di una governance nuova e credibile, per arrivare finalmente a una “democrazia sbloccata”.
Gaetano Maccaferri, vicepresidente di Confindustria per la Semplificazione e l'Ambiente