Stefano Parisi (foto LaPresse)

Stefano Parisi ci spiega perché sul referendum bisogna dire No

Claudio Cerasa
Una riforma fatta in maniera approssimativa non è comunque – come tanti dicono – un passo avanti sulla via che porta alla modernizzazione dell’Italia: è solo un danno alle istituzioni.

Al direttore - Una riforma fatta in maniera approssimativa non è comunque – come tanti dicono – un passo avanti sulla via che porta alla modernizzazione dell’Italia: è solo un danno alle istituzioni. E’ questa la ragione principale per cui dico No alla riforma Renzi-Boschi: è confusa, piena di punti oscuri che non si sa bene come saranno sciolti e perciò crea problemi al paese, complicando le cose per molto tempo. Nell’ultimo quarto di secolo – pressappoco il tempo della Seconda Repubblica – abbiamo avuto già esperienza di riforme costituzionali sbagliate o malfatte: l’eliminazione dell’immunità parlamentare, le modifiche al Titolo V introdotte nel 2001 dal centrosinistra. Soprattutto le prime due hanno prodotto danni di lungo periodo. Temo che la riforma Renzi-Boschi appartenga alla stessa categoria. Molti pensano: intanto cominciamo a fare una riforma quale che sia, poi vedremo. E’ un grave errore: stiamo toccando la Costituzione. Non si può provare o sperimentare a caso: bisogna fare bene da subito. Il mio è un No costruttivo. Non un No contro Renzi, ma un No riformista – motivato dalla volontà di fare una riforma migliore, che modernizzi la Costituzione e intervenga con efficacia sulla struttura dello stato. Perché non va bene la riforma di Renzi? In primo luogo appesantisce l’attività legislativa: al bicameralismo paritario succederebbe un bicameralismo confusionario. Per esempio è prevista una pluralità  di procedure parlamentari, ciascuna con poteri differenti attribuiti al Senato. Nel caso di conflitto tra le Camere i rispettivi presidenti hanno la responsabilità di trovare un accordo: se non vi riescono, non esiste una norma che stabilisca che cosa fare. I poteri del Senato non sono delimitati in modo preciso e univoco: nel tempo l’istituzione tenderà ad allargarli facendo crescere sovrapposizioni e conflitti. Il governo avrà poi difficoltà ad arginare questa tendenza in quanto non dispone al Senato della possibilità di porre la fiducia.

 

C’è un secondo motivo altrettanto grave. La riforma limita fortemente le autonomie locali centralizzando poteri e attività e creando le premesse per nuovi conflitti davanti alla Corte costituzionale poiché non definisce in modo univoco il discrimine fra materie di competenza statale e materie di competenza regionale. Negli enti locali è oscurata la responsabilità fiscale. Senza contare che viene mantenuta intatta la differenza tra regioni ordinarie e regioni a Statuto speciale, una formula che non ha dato finora buona prova di sé. Inoltre la riforma non assicura efficienza funzionale al Senato: i suoi componenti sono eterogenei e rispondono a mandati di diverso tipo essendo presenti consiglieri regionali, sindaci, nominati a vita. Consiglieri regionali e sindaci, che rappresentano il 95 per cento dei componenti, rispondono, date le modalità di elezione, ai partiti che li indicano più che alle regioni che rappresentano, a differenza di quanto avviene nel Bundesrat tedesco. La cosa più evidente, e sbagliata, è che per consiglieri regionali e sindaci il Senato si configura come un dopolavoro, un’attività residuale, mentre le competenze attribuite hanno un grande rilievo. Infine la riforma non affronta il problema della debolezza dell’esecutivo. Il premier non ha il potere di nominare o revocare i ministri. Non è una buona soluzione affrontare il problema in via indiretta con l’abnorme premio di maggioranza previsto dalla legge elettorale che porta a un dannoso squilibrio nella rappresentanza. Anche attribuire formalmente alla Corte costituzionale il potere di controllo sulle leggi elettorali non è una buona idea: si riducono infatti su una materia cruciale le prerogative del Parlamento e della sua maggioranza. Si può fare di più e di meglio. Approvare questo pasticcio sarebbe un danno per tutti, e pagheremmo per anni l’irruenza di un momento e la voglia del premier di lasciare un qualsiasi segno della sua attività. L’Italia non ha cambiato verso, il paese è fermo, le persone (quelle normali, quelle escluse dalle caste) vedono crescere e non diminuire i loro problemi. Serve energia, non retorica. Questa riforma aggrava le cose, ingolfa lo stato.  Ecco cosa occorre. Una Assemblea costituente eletta dai cittadini, indipendente dal Parlamento che scriva in pochi mesi una riforma con i seguenti obiettivi:

 

a) un vero presidenzialismo ovvero un esecutivo rafforzato;

b) un primo ministro che sceglie e revoca i ministri;

c) un governo che abbia una corsia preferenziale, con tempi prestabiliti, per i propri disegni di legge.  

 

Servono una vera abolizione del Senato e un riassetto della Camera con riduzione del numero dei deputati a 400 (un deputato ogni 100.000 elettori). Inoltre: responsabilità fiscale degli enti locali, istituzione delle macroregioni (con almeno 7/8 milioni di abitanti), con competenze più chiare e leggi elettorali uniformi. Infine dobbiamo abolire le Città metropolitane: carrozzoni inutili nati da una riforma pessima esattamente nello stile di questa riforma costituzionale che produrrebbe gli stessi (devastanti) risultati.

Stefano Parisi

 

Caro Parisi, il suo No, per come è strutturato, è l’unico No che ha un senso, perché non dice che la riforma ci porterà alla dittatura, non dice che con il Sì vince Mussolini, non rinnega la storia del centrodestra, come fanno molti suoi colleghi del centrodestra, ma chiede di fare di più e di fare meglio. Capisco il suo sforzo e personalmente lo apprezzo. Ma sono convinto che il centrodestra del futuro avrà un futuro, appunto, solo se vincerà il Sì. Solo cioè se si affermerà un sistema certamente imperfetto ma migliore, anche nel rafforzamento dei poteri delle maggioranze, rispetto a quello che abbiamo oggi. Per questo mi riconosco al cento per cento in quello che ha detto il professor Giovanni Orsina due giorni fa sull’Unità: “Renzi sta diventando il collante del centrodestra come lo è stato Berlusconi per vent’anni per la sinistra. Basta guardare Stefano Parisi: come aspirante federatore della destra, alla fine ha dovuto adeguarsi al No. Per coerenza storica il centrodestra dovrebbe votare la riforma: ha tanti difetti, ma nella sostanza assomiglia molto ai discorsi che Berlusconi ha sempre fatto”. In bocca al lupo, caro Parisi. Il centrodestra avrà bisogno di lei. Specie se dovesse vincere il Sì.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.