L'endorsement di Obama a Renzi e la crisi della retorica progressista sul cambiamento
Il discorso del presidente americano per il Sì al referendum costituzionale e in appoggio al premier italiano va oltre la personalizzazione del voto del 4 dicembre: è un'iconizzazione che però mostra i limiti dell'idea liberal della positività a priori del cambiamento.
A Obama non devono aver spiegato bene che la personalizzazione del referendum era sbagliata oppure il suo staff ha pensato bene che senza personalizzazione il Sì al referendum non ha molte chance di successo. Propendo per la seconda, conoscendo la preparazione meticolosa degli esperti di comunicazione della politica americana. Non sempre sono vincenti, come ha dimostrato l’endorsement pro Remain per l’Inghilterra di Cameron. Ma questa è politica, materia con troppe variabili. I Democrats in carica provano a fare la loro strategia e gli esperti di comunicazione ad applicare ciò che sanno. Sorvolo qui sul giudizio di merito sia sui Democrats sia sul referendum per sottolineare invece la strategia comunicativa.
Obama ha fatto ben più che una personalizzazione. Ha fatto un’iconizzazione, un ritratto del nostro premier passando dal dire che è “giovane e bello”, alla sua passione per i tweet e al suo passato da scout. Negli atteggiamenti più ancora che nelle parole, ha dimostrato che il nostro premier è simpatico e degno della fiducia degli Stati Uniti. Per tutte queste ragioni bisogna appoggiare le sue riforme.
La rappresentazione iconica (di immagini che restano nella mente) è costruita per arrivare a indicare il nome e cognome come avviene negli spot elettorali. A prescindere dalla strategia politica – ciò che Obama ha chiesto in cambio – e dalla costruzione dell’evento su misura per l’ospite – di cui avranno studiato le caratteristiche psicologiche – gli esperti di comunicazione hanno pensato che senza personalizzazione questo referendum non abbia possibilità di passare.
Del resto, lo si diceva sul Foglio, la politica è passione e mentre chi vota No ha in fondo un buon motivo (cercare di mandare a casa il governo, per una ragione o per l’altra), per trascinare chi vota “sì” alle urne ci vuole qualche motivo affettivo dirompente e non lontano e astratto come una riforma poco sentita dal paese reale.
L’aggiunta di Obama sul fatto che Renzi non se ne debba comunque andare in caso di sconfitta al referendum, oltre al rapporto personale di fiducia con un premier che gli Stati Uniti ritengono centrale, conferma anche la volontà di sminuire la carica passionale inversa. Il voto per il Sì deve essere pro-Renzi mentre il voto per il No non ottiene il risultato di mandarlo via. E’ un controsenso? Forse, ma la comunicazione tollera qualche asimmetria logica.
Infine, lo scenario iconico di ieri ci dice anche qualcosa sull’antica retorica progressista del cambiamento. Certo, insieme all’iconizzazione Obama ha anche cavalcato il paradigma del “cambiamento”, che in Italia è il nuovo perno della campagna referendaria per il Sì e che è da sempre il cavallo di battaglia dei progressisti. Tuttavia, ci sono significative variazioni rispetto al passato, che Obama peraltro ha fatto sue con la consueta abilità. Adesso c’è Trump in campo e anche Trump invoca il cambiamento. Quindi Obama non può più dire che il cambiamento è sempre buono. Così ieri lo ha qualificato con un colore emotivo. Il cambiamento è buono solo quando poggia sulle speranze nel futuro (Renzi) e non sulle paure (Trump).
Anche in questo caso l’analisi metterebbe qualche dubbio sulla logica: le immagini del futuro sono sempre vaghe e, in quanto tali, creano sempre sentimenti positivi e negativi allo stesso tempo. Le figlie di queste immagini sono illusioni e paure, che sono sempre sorelle, anche se sono di segno opposto. La speranza efficace non poggia né sulle paure né sulle illusioni, ma sulle certezze del presente. Spero domani di fare un bel lavoro perché oggi ho studiato tanto e bene; spero di vincere la lotteria perché ho comprato il 90% dei biglietti. Tuttavia, anche in questo caso, non è la logica stringente che preoccupa lo staff del presidente americano ma l’impatto che la comunicazione genera.
E’ su questo impatto che il giudizio dei comunicazionisti della Casa Bianca deve essere diverso da quelli di Palazzo Chigi, che cercano di tornare indietro dalla personalizzazione a favore del puro cambiamento. Si vedrà se i voti daranno loro ragione ma di certo negli Stati Uniti la pura retorica del cambiamento progressista sembra quantomeno in crisi.