Il virus dell'amara giustizia. Intervista a Ilaria Capua
Ha presente il libro ‘Il Danno’, di Josephine Hart? Io mi sento come il protagonista. Mi considero una sopravvissuta. Una sopravvissuta all’amara giustizia”. Ilaria Capua accenna un sorriso. Trenta giorni fa, con voto segreto, la Camera dei deputati, 283 sì e 179 no, ha accolto le sue dimissioni e ha detto sì alla sua richiesta di mollare la politica, di fuggire via dal Parlamento, di abbandonare l’Italia e di andarsene in America a svolgere la sua professione di scienziato. Sono passati trenta giorni e in questo breve arco di tempo Ilaria Capua ha rimesso insieme le scene del suo film, o meglio del suo incubo, rimontandole a una a una, con cura, come quando un regista alla fine del suo girato si chiude in una stanza con la sua squadra per lavorare in post produzione sui dettagli, le sfumature e le migliori inquadrature. La storia di Ilaria Capua è nota. Nell’aprile del 2014, tre anni dopo aver ricevuto il principale riconoscimento mondiale nell’ambito della medicina veterinaria e un anno dopo essere stata eletta alla Camera dei deputati tra le file di Scelta civica, viene sbattuta in copertina dall’Espresso e viene descritta come una terribile e pericolosa criminale senza scrupoli che passa la sua vita a lucrare sulla salute delle persone. Le accuse sono potenti: associazione a delinquere finalizzata alla corruzione, abuso di ufficio e traffico illecito di virus. E soprattutto procurata epidemia. Due anni dopo, nel luglio del 2016, è stata prosciolta, perché il fatto non sussiste. Dopo 28 mesi di gogna. Di titoli infamanti. Di solidarietà negate. Di garantismo utilizzato come un collutorio per fare ottimi gargarismi. Ilaria Capua oggi sorride. Ma sorride con amarezza. Con una ferita dentro, che oggi decide di mostrare.
“Posso dire – ci racconta – che attraverso la mia storia ho capito molto non solo di che cos’è la giustizia italiana ma anche quali sono alcuni meccanismi che in un certo senso giustificano tutti coloro che scelgono di andarsene all’estero”.
Il giorno delle sue dimissioni da parlamentare, Ilaria Capua ha raccontato che la storia che ha vissuto è stata “un incubo senza confini e una violenza che non solo mi ha segnata per sempre, ma che ha coinvolto e stravolto anche la mia famiglia” e che la scelta di andare via dall’Italia è avvenuta anche “per protegge la mia famiglia dalle accuse senza senso ma nel contempo infamanti che mi portavo sulle spalle”. La scienziata, oggi, lo dice con un sorriso e prova a sintetizzare tutto con una battuta: “Se c’è un virus pericoloso in questa storia quel virus è certamente quello della ‘amaragiustizia’. Già. Nella storia di Ilaria Capua ci sono alcuni passaggi che la scienziata accetta di ricostruire e che fotografano bene, dall’interno, non solo che cos’è la gogna, quali sono i suoi meccanismi, ma anche come funziona e che effetti ha il circo mediatico-giudiziario e la costante violazione culturale dello spirito dell’articolo 27 della Costituzione: ogni cittadino è innocente fino a prova contraria.
“Ricordo tutto come se fosse ieri e ancora mi viene la pelle d’oca. Il 2 aprile del 2014 un famoso giornalista dell’Espresso, il dottor Lirio Abbate, mi manda un’email e mi chiede di potermi fare alcune domande per un articolo che stava scrivendo sull’Aviaria. Io gli rispondo e gli dico che sono disponibile ma che avevo bisogno di contestualizzare. Aviaria dove? In Cina? In Egitto? Negli animali? Nell’uomo? – mica sono tutte uguali le epidemie. Gli do gentilmente il mio numero di cellulare e lui mi richiama da un numero schermato. Mi dice, testualmente, di essere sul punto di pubblicare un articolo relativo a un’indagine segreta su un traffico internazionale di virus e mi chiede se io fossi al corrente di questa indagine e del mio coinvolgimento. Trasecolo. Non avevo mai ricevuto un avviso di garanzia”.
Anzi, per la verità sì; ne avevo ricevuto uno nel passato, nel 2007, un avviso di garanzia per contraffazione di sigilli. Mai più saputo nulla di quel presunto reato. Chiedo al giornalista se si tratta di quella storia. Abbate mi dice che quella storia è chiusa e che questa indagine a mio carico è una cosa diversa. Trasecolo nuovamente. Nessuna procura mi aveva mai comunicato che quell’indagine era stata chiusa. Nessuna procura mi aveva mai notificato un avviso di garanzia per informarmi di questa nuova indagine. Qualcuno però si era premurato di informare un giornalista. Che dire? Finita la conversazione – continua la Capua – cerco di mettermi in contatto con la direzione del giornale. Chiedo di poter mostrare delle carte a testimonianza della assurdità che Abbate mi aveva prospettato come presunti reati. Nessuno mi ha mai risposto. Per altre vie vengo a sapere che sarebbe stata la storia di copertina e che ci stava lavorando da due mesi. Ho sentito il sangue che mi si solidificava nelle vene. Mi ritrovo due giorni dopo con l’articolo di Abbate in homepage sul sito. Il giorno dopo sull’Espresso. Esce la copertina. Inizia la gogna. La mia vergogna”. E a quel punto poteva succedere qualsiasi cosa, racconta la scienziata. “Sì. Non esco fuori di testa per miracolo. L’accusa che mi è stata rivolta aveva dell’incredibile. Mi accusavano di aver creato un’epidemia nel 2004, per arricchirmi. Per un capo di imputazione del genere si arriva a pagare non con una multa ma con l’ergastolo. Ripeto: l’ergastolo. Ma il solo fatto che allora abbiano scelto di non arrestarmi poteva essere sufficiente a capire che forse neanche i magistrati credevano fino in fondo a quel capo di imputazione: se accusi una persona di aver preso un mitra e di aver fatto una strage mi vuoi arrestare o mi vuoi ancora far girare con il mitra in mezzo alla strada?”.
E secondo lei perché non l’hanno arrestata? “Immagino perché l’epidemia di cui ero stata accusata non si è mai verificata. Il virus che secondo loro avrei sparso in giro dolosamente non ha mai circolato né in Italia né in Europa. Gli avvocati dicono che in Italia spesso si sceglie di inserire nel castello accusatorio un reato ‘più pesante’ non tanto per dimostrare la tipologia di reato di cui sei accusato ma solo per evitare di superare i limiti imposti dalla prescrizione. E ovviamente un reato di epidemia non si prescrive. Giustamente secondo me. Mi spiace dirlo ma oggi devo dirlo. Hanno giocato tutti con la mia vita. Hanno giocato con la mia salute. Io potevo prendere una pistola e ammazzarmi, o sparare alla mia famiglia. Come lo spieghi a un marito straniero che per allungare i tempi della prescrizione ti accusano di aver fatto una strage? Come puoi non arrivare a fare certi pensieri se i giornali pubblicano intercettazioni di ogni tipo, anche quelle con un padre, il mio, morto da pochi mesi e infangato come mio ‘complice’ per giorni, giorni e giorni. Anche mia mamma, secondo le intercettazioni era ‘complice’ del mio disegno criminoso. Chi ci restituisce ora quello che ci è stato tolto? Giulia Bongiorno, avvocato, mi dice sempre: se prendi le parole della Bibbia e fai copia in colla, smonti le frasi, la Bibbia può diventare un libro pornografico. Se prendi conversazioni raccolte in epoche diverse e le rimonti a piacimento puoi diventare anche un potenziale omicida. Ecco. Tutto questo per dire che in poche ore hanno distrutto la mia vita, la mia reputazione. Hanno massacrato il mio gruppo di lavoro, un gruppo di eccellenza, un gruppo di ricercatori formato da 70 persone. Hanno indagato anche il mio braccio destro che ora lavora in Austria”.
Siamo nel 2014. Passano i giorni e la gogna inizia a prendere forma in Parlamento. “Il Movimento 5 stelle inizia a trattarmi come se fossi un essere appestato. Decido di non andare più in Transatlantico, per la vergogna. Quando proprio ci devo passare faccio solo i corridoi laterali, per evitare di farmi vedere da qualcuno. Entro ed esco solo dalle porte laterali della Camera. Ero arrivata al punto di vergognarmi anche di camminare per strada. Sono tornata a casa in quei giorni, in un paesino in provincia di Padova, 7.000 abitanti, e la gente quando mi incontrava mi guardava negli occhi e abbassava subito lo sguardo. Anche a Padova città. Non sono andata in centro per mesi. Da brillante scienziata, esempio per le nuove generazioni, ero diventata un mostro. Il senso era chiaro. Quegli sguardi erano un mix di imbarazzo, di odio, di schifo. E quello sguardo che si abbassava voleva dire solo una cosa: lei è marcia”.
E poi arriva il 22 giugno. “Due mesi dopo essere stata informata da un giornalista di essere indagata da molti anni ricevo anche io la comunicazione ufficiale. Arriva l’avviso di conclusione indagini. Le accuse ora sono nero su bianco. Passano i giorni e la situazione non cambia. Io ripeto a tutti che non ho fatto nulla, chiedo ai giornalisti e colleghi parlamentari di leggere le carte, spiego l’assurdità di essere accusata di aver fatto una strage e di essere ancora a piede libero. Ma ormai il meccanismo si è attivato e per chi vive nel frullatore della gogna non esiste possibilità di essere considerati innocenti fino a prova contraria: esiste solo la possibilità di sopravvivere, in un mondo che ti considera colpevole fino a prova contraria. Parlo con il mio avvocato, anzi con diversi avvocati, e tutti mi confermano che l’accusa non sta in piedi. Tutti concordi: è chiaro che l’inchiesta finirà nel nulla. Dicono che se l’articolo 358 del codice di procedura penale che impone al pm di svolgere anche indagini a favore dell’indagato fosse applicato non ci sarebbero in Italia tutti questi casi di gogna. Ma dicono anche che in un sistema come il nostro tutto può accadere. E che nel migliore dei casi, per quanto mi riguarda, l’iter giudiziario sarebbe andato avanti per due o tre anni. E che nel peggiore dei casi si poteva arrivare fino a dieci anni. Sono stata fortunata. Ho dovuto aspettare più o meno due anni e mezzo, poi una giudice è entrata nel merito di tutti i capi di imputazione e ha smontato tutte le accuse a mio carico”.
Tutte tranne una. “C’è un reato che è stato prescritto e che riguarda un’accusa di concussione (poi derubricata a corruzione). Ho un amico fraterno che lavora per un’azienda farmaceutica che produce vaccini per animali da allevamento. Lui era molto critico nei confronti della sua azienda. In una frase nelle intercettazioni è riportato che questo amico mi ha detto ‘cara Ilaria, per quello che hai fatto per l’avicoltura, la mia azienda dovrebbe regalarti un villino su un’isola greca’. Era una battuta, è ovvio. La procura l’ha trasformata in un’accusa di concussione. Vede: la mia è una storia incredibile che dimostra due cose. Da un lato la superficialità delle indagini e delle interpretazioni di tecnici che non hanno una formazione scientifica. Dall’altra come le intercettazioni se montate a proprio piacimento possono aiutare a dimostrare che anche la Bibbia è un libro pornografico”.
Qualche settimana fa Ilaria Capua ha ascoltato il presidente del Consiglio durante una trasmissione televisiva, “Politics”, su Rai Tre, e in quell’occasione Matteo Renzi ha detto che “fra Ilaria Capua e chi dice, come il Movimento 5 stelle, che gli americani non siano mai andati sulla luna, io sto con Ilaria Capua senza se e senza ma”. Capua si fa seria e smette di sorridere. “Ringrazio il presidente del Consiglio per le parole di vicinanza. Ma queste parole mi fanno rabbia. Non posso non far notare che se il Partito democratico avesse voluto esprimere vicinanza nei miei confronti avrebbe dovuto votare contro le mie dimissioni da parlamentare. Lo sanno, io le avrei ripresentate la settimana dopo, ormai vivo all’estero, ho pure rinunciato allo stipendio da parlamentare, ma sarebbe stato un atto simbolico significativo. Nel gioco delle parti, quel giorno, il giorno delle mie dimissioni, non mi sono stupita del voto favorevole del Movimento 5 stelle. Per chi è giustizialista è normale attaccare la Capua: è un bersaglio perfetto ed è persino stata chiamata da Mario Monti, e dunque non può che essere marcia fino all’osso. Ma per chi si dice garantista, beh, il mio caso si sarebbe potuto trasformare nel principio di una grande battaglia volta a curare il virus della ‘amara giustizia’ italiana. Invece no: non è successo. Non è successo dopo il 4 aprile 2014. Non è successo come mi sarei aspettata dopo la chiusura della mia vicenda giudiziaria. Un partito garantista, come il Pd, avrebbe dovuto votare contro la mia richiesta delle dimissioni. Ma purtroppo in Italia il virus della amara giustizia è un virus che si porta dietro una grande paura. Tu indagato o imputato, accusato dalla magistratura sei radioattivo, appestato, contagioso: nessuno prende le tue difese. Nessuno. Con me è andata così. Molta solidarietà in privato, poca solidarietà in pubblico. E oggi, paradossalmente vengo intervistata non per la mia attività scientifica ma per questa surreale vicenda giudiziaria. Mio malgrado sono diventata testimone dell’amara giustizia all’italiana e vorrei che la mia brutta vicenda servisse, da un lato a far riflettere sulla pressapochezza di alcune indagini, e dall’altro sull’effetto devastante della spirale della giustizia sommaria elaborata dalla stampa. Nella vita tutto serve, anche i peggiori incidenti di percorso, basta saperli interpretare come sfide e avere la forza di rimettersi insieme. Assaggiare l’amara giustizia mi ha reso più forte ma soprattutto consapevole che in un paese civile la giustizia non può avere il sapore del fiele”.